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COMPETENZE RISERVATE DEGLI ARCHITETTI E DISAPPLICAZIONE DELL'ATTO AMMINISTRATIVO PDF Stampa E-mail
sabato 17 novembre 2007
La sentenza che segue non è priva di interesse sia per il contenuto, sia per le soluzioni processuali seguite
Il thema decidendum riguarda la competenza riservata dall'art. 52 del R.D. 1925 n. 2537 agli architetti, per quanto attiene alla direzione dei lavori di restauro e di ripristino degli immobili di interesse culturale. A lamentarsi della riserva era un ingegnere civile, che si era visto negare dalla soprintendenza il permesso a dirigere lavori di tal tipo.
 La controversia è, dapprima, approdata in Corte di Giustizia, che ha affermato che la normativa italiana, ponendo una discriminazione solo tra gli architetti italiani e gli ingegneri italiani, non collide con i principi comuntari.  
A questo punto, la questione è stata inviata davanti alla Corte costituzionale; quest'ultima, tuttavia, attribuendo carattere regolamentare al decreto del 1925 dichiara inammissibile la q.l.c.
 Il T.A.R., da ultimo, accoglie il ricorso dell'ingegnere, disapplicando il decreto del 1925, perché illegittimo, a fronte dell'art.\ 3 Cost. e perché contrario alla legge comunitaria italianache impone di equiparare i cittadini italiani a quelli dell'Unione.
 Una soluzione, sotto il profilo del buon senso, probabilmente apprezzabile. Ma restano intatti i dubbi sul potere di disapplicazione da parte del giudice amministrativo.
 
[N.D.E. Il presente contributo reca opinioni personali dell'estensore e non intende illustrare opinioni ufficiali dell'Associazione] 

T.A.R. Veneto, sez. II,  15 novembre 2007, n. 3630:

 

"FATTO
Con nota 4.6.2001 il signor Emilio Pasqua di Bisceglie per la proprietà, l'arch. Sergio Spiazzi quale direttore dei lavori uscente e l'ing. Alessandro Mosconi quale direttore dei lavori subentrante comunicavano al Comune di S. Martino B.A. ed alla Soprintendenza ai beni ambientali ed architettonici di Verona la sostituzione del direttore dei lavori oggetto della concessione edilizia n. 29/01 riguardante un immobile vincolato ai sensi del DLgs n. 490/99.
Pochi giorni più tardi, il nuovo direttore dei lavori notiziava la Soprintendenza che i lavori stessi avrebbero avuto inizio il successivo 18 giugno.
Alle predette comunicazioni replicava la Soprintendenza con nota 19.6.2001 affermando l'esclusiva competenza degli architetti, ai sensi dell'art. 52, II comma del RD n. 2537/25, in ordine agli interventi su beni immobili sottoposti alla speciale tutela di cui al DLgs n. 490/99.
L'ing. Mosconi, ritenendo tale determinazione lesiva, la impugnava unitamente all'Ordine degli ingegneri di Verona.
Secondo i ricorrenti la mancata, piena equiparazione della laurea in ingegneria civile a quella in architettura violava apertamente la direttiva CEE 10.6.1985 n. 384 (ora sostituita dalla direttiva n. 36/05) – che, intesa ad uniformare negli Stati membri le condizioni minime per la formazione di coloro che operano nel settore dell’architettura al fine di assicurarne il reciproco riconoscimento, qualificava l’architetto sotto un profilo sostanziale, riconoscendo tale professionalità a chi avesse conseguito il titolo abilitativo durante un ciclo di formazione rispondente ai requisiti di cui agli artt. 3 e 4 della medesima direttiva (numero minimo di anni di studio e specifico percorso didattico in materie architettoniche) e fosse, perciò, incluso nell’elenco formato ex art. 7 o, in regime transitorio, ex art. 11 della direttiva stessa -, attuata in Italia con il DLgs 27.1.1992 n. 129 (modificato con l’art. 16 della legge n. 14/03).
Resistevano in giudizio il Ministero per i beni e le attività culturali, il Comune di S. Martino B.A. ed il Consiglio nazionale degli architetti, quest’ultimo intervenuto ad opponendum, i quali, rilevando l’infondatezza del gravame, concludevano per la sua reiezione.
Interveniva ad adiuvandum, invece, il Consiglio nazionale degli ingegneri.
Con ordinanza 24.10.2001 n. 4236 il Tribunale, atteso che al riguardo aveva in tempi pregressi adottato due pronunce tra di loro contrastanti – la prima (sez. I, 9.3.1999 n. 307) favorevole alla disapplicazione dell’art. 52 del RD 2537/25 e la seconda (sez. I, 28.6.1999 n. 1098) contraria -, rimetteva gli atti alla Corte di giustizia delle comunità europee per la pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione degli artt. 10 e 11 della direttiva n. 384/85, richiedendo, in particolare, se le predette disposizioni (nelle quali si precisa che il titolo di ingegnere civile è equiparato, ai fini dell’accesso ai servizi nel settore professionale dell’architettura, a quello di architetto) imponessero ad uno Stato membro di non escludere dall’accesso alle prestazioni dell’architetto i propri laureati in ingegneria civile che avessero seguito un percorso didattico conforme alle prescrizioni di cui agli artt. 3 e 4 della direttiva stessa.
Con ordinanza 5.4.2004 la IV sezione della Corte di giustizia si è pronunciata sulla questione statuendo che la direttiva n. 384/85 non si occupa del regime giuridico di accesso alla professione di architetto vigente in Italia, ma ha ad oggetto solamente “il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione, allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi per le attività del settore dell’architettura”.
Secondo la Corte, dunque, impregiudicata la possibilità che la normativa nazionale riservi ai soli architetti i lavori sugli immobili di interesse storico artistico sottoposti a vincolo, la direttiva in questione esclude che tale riserva possa operare anche nei confronti dell’ingegnere civile che abbia conseguito il titolo abilitativo in altro Stato membro seguendo un ciclo formativo rispondente agli artt. 3 e 4 della direttiva stessa.
In tale contesto, peraltro, l’eventuale discriminazione “al rovescio” che potrebbe colpire il professionista italiano – la cui sussistenza viene pacificamente ammessa dalla Corte – costituisce, secondo la Corte di giustizia, questione meramente interna che lo Stato italiano deve risolvere alla stregua del proprio ordinamento.
Preso atto di tale determinazione, con ordinanza 28.9.2005 n. 3600 l’intestato Tribunale, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 52, II comma del RD n. 2537/25 nella parte in cui stabilisce una riserva di attività a favore degli architetti che, applicabile agli ingegneri civili che hanno conseguito il titolo abilitativo in Italia, non è invece applicabile agli ingegneri civili in possesso di titolo professionale rilasciato dagli altri Stati membri (giusta la precisazione contenuta nella pronuncia 5.4.2004 della Corte di giustizia), trasmetteva gli atti alla Corte costituzionale per la relativa decisione.
Con ordinanza 19.4.2007 n. 130 la Corte dichiarava manifestamente inammissibile la sollevata questione di costituzionalità, “in quanto il r.d. n. 2537 del 1925 ha natura regolamentare e, come tale, è sottratto al giudizio di legittimità costituzionale”.
Restituiti gli atti al Tribunale, la causa, ove le parti depositavano memorie ribadendo le rispettive conclusioni, è passata in decisione all’udienza del 31 ottobre 2007, previa ampia ed articolata discussione.
DIRITTO
Dal richiamato pronunciamento 5.4.2004 della Corte di giustizia si deve, dunque, desumere che l’art. 52, II comma del RD n. 2537/25 non è incompatibile con la direttiva comunitaria n. 384/85, in quanto questa non si propone di disciplinare le condizioni di accesso alla professione di architetto né di definire la natura delle attività svolte da chi esercita tale professione, ma soltanto di garantire “il reciproco riconoscimento, da parte degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi per le attività del settore dell’architettura”.
La direttiva, cioè, non obbliga a porre i diplomi di laurea in architettura ed in ingegneria civile indicati all’art. 11 su un piano di perfetta parità ai fini dell’accesso alla professione di architetto in Italia, ma, in coerenza con il principio di non discriminazione tra Stati membri, impone soltanto di non escludere da tale accesso in Italia coloro che siano in possesso di un diploma di ingegneria civile o di un titolo analogo rilasciato da un altro Stato membro.
Contestualmente, peraltro, la Corte ammette che dal divieto, per gli ingegneri civili che hanno conseguito il titolo in Italia, di accedere all’attività di cui all’art. 52 del RD n. 2537/25, ancorché irrilevante nell’ambito comunitario, possa derivare una discriminazione al rovescio (“è vero che…ne può derivare una discriminazione alla rovescia, poiché gli ingegneri civili che hanno conseguito i loro titoli in Italia non hanno accesso, in tale Stato membro, all’attività di cui all’art. 52, II comma del Regio decreto n. 2537/25, mentre tale accesso non può essere negato alle persone in possesso di un diploma di ingegnere civile o di un titolo analogo rilasciato in un altro Stato membro, qualora tale titolo sia menzionato nell’elenco redatto ai sensi dell’art. 7 della direttiva 85/384 o in quello di cui all’art. 11 della detta direttiva”), ma risolve il problema assumendo che si tratta di una questione puramente interna all’ordinamento italiano, talchè non emerge un contrasto rilevante con la fonte soprannazionale né con il principio di parità di trattamento da applicarsi ai professionisti migranti di altri Stati membri.
In una situazione del genere – prosegue la Corte -, ove cioè l’ingegnere civile che ha conseguito il titolo abilitativo in Italia si vede interdire la realizzazione di lavori su immobili di interesse storico artistico sottoposti a vincolo, “spetta al giudice nazionale stabilire se vi sia una discriminazione vietata dal diritto nazionale e, se del caso, decidere come essa debba essere eliminata”.
La disparità di trattamento attuata all’interno dell’ordinamento italiano dall’art. 52 del RD n. 2537/25 è, dunque, evidente, atteso che agli ingegneri civili che hanno conseguito il diploma di laurea in Italia è impedito l’accesso ad attività professionali che l’Amministrazione statuale non può, invece, vietare agli ingegneri civili (o possessori di titoli analoghi) che hanno ottenuto il titolo in altri Stati membri.
La discriminazione, peraltro, è certamente ingiusta ed irragionevole, in quanto interdicendo ai cittadini italiani lo svolgimento di attività consentite a cittadini comunitari muniti del medesimo titolo professionale, si disciplinano in modo diverso situazioni identiche, senza che la differenziazione sia oggettivamente giustificabile.
L’art. 52 del RD n. 2537/25 – che la Corte costituzionale ha affermato aver natura regolamentare - viola, dunque, il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione: tale constatazione è sufficiente per accogliere il ricorso ed annullare l’impugnato provvedimento, previa disapplicazione della richiamata norma. Nel caso di conflitto tra fonte primaria ed atto di normazione secondaria, invero, la norma di rango inferiore, anche se non impugnata, deve considerarsi, in conformità con il principio di gerarchia delle fonti, recessiva e, quindi, inapplicabile come regola di giudizio (cfr., da ultimo, CdS, V, 25.9.2006 n. 5625; TAR Milano, 18.7.2007 n. 5424).
Ma la disapplicazione dell’art. 52 del RD n. 2537/25 trova fondamento e giustificazione anche nel contrasto della norma nazionale con la normativa europea.
La norma in questione, limitando l’attività degli ingegneri che abbiano conseguito il titolo in Italia attraverso un percorso formativo analogo a quello degli architetti, contrasta palesemente con il principio comunitario (recepito dall’Italia con il DLgs n. 129/92) che, espresso dalla direttiva n. 384/85, stabilisce la equiordinazione sul piano comunitario dei titoli di ingegnere civile ed architetto: né tale conclusione si pone in contrasto con la funzione della direttiva stessa affermata dalla Corte di giustizia, ma, anzi, ne è coerente conseguenza, perché se è vero che tale direttiva opera sul piano comunitario, ove è preordinata a garantire il reciproco riconoscimento dei titoli equipollenti da parte dei Paesi membri, è altresì vero che tale riconoscimento viene concretamente attuato, sullo stesso piano comunitario, affermando, fra l’altro, che il diploma di laurea (rilasciato dall’Università italiana) individuato ai sensi dell’art. 11, I comma, lett. f) è equipollente con i titoli degli altri Stati membri che consentono l’accesso alla professione di architetto in Italia.
In altre parole, nel momento in cui la normativa europea afferma che l’ingegnere civile laureatosi in Italia può svolgere l’attività propria dell’architetto in tutta l’Europa, ma (in virtù di una norma interna) non in Italia, si offre al giudice italiano un parametro normativo per un giudizio di disapplicazione della norma interna contrastante con quella europea.
È evidente l’arbitraria discriminazione a danno degli ingegneri civili italiani operata dalla norma in esame, i quali, equiparati agli ingegneri civili ed agli architetti europei dalla normativa comunitaria, possono esercitare, diversamente da questi ultimi, l’attività professionale riservata ai titolari di diploma di architetto in tutta l’Europa, ma non in Italia: discriminazione che, trovando causa nel contrasto tra la normativa nazionale e il diritto comunitario, va risolta con la disapplicazione della disciplina interna e la conseguente invalidità degli atti applicativi.
La giurisprudenza costituzionale, invero, ha da tempo chiarito che il divieto di discriminazione è espressione specifica del principio generale di uguaglianza, il quale impone che situazioni omogenee non vengano trattate in modo diverso, a meno che una differenziazione non sia oggettivamente giustificata (cfr. tra le altre, con riferimento al diritto comunitario, Corte cost. 30.12.1997 n. 443).
Tale principio opera anche come istanza di adeguamento del diritto interno ai principi comunitari: conseguentemente, nel giudizio sul rispetto del principio costituzionale di uguaglianza ex art. 3 Cost., non possono essere ignorati gli effetti discriminatori che l’applicazione del diritto comunitario è in grado di provocare.
Ma c’è di più.
L’art. 52, II comma del RD n. 2537/25 contrasta anche con il principio di parità introdotto dall’art. 2, I comma, lett. h) della legge comunitaria 2004 (legge 18.4.2005 n. 62), secondo cui i decreti legislativi che il legislatore nazionale dovrà emanare per dare attuazione alle direttive comunitarie comprese negli elenchi di cui agli allegati A e B “assicurano che sia garantita una effettiva parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati membri dell’Unione europea, facendo in modo di assicurare il massimo livello di armonizzazione possibile tra le legislazioni interne dei vari Stati membri ed evitando l’insorgere di situazioni discriminatorie a danno dei cittadini italiani nel momento in cui gli stessi sono tenuti a rispettare, con particolare riferimento ai requisiti richiesti per l’esercizio di attività commerciali e professionali, una disciplina più restrittiva di quella applicata ai cittadini degli altri Stati membri”: tale principio, pur contenuto in una norma particolare (relativa all’emanazione dei decreti legislativi di attuazione di specifiche direttive comunitarie), deve ritenersi di applicazione generale, perchè diversamente si creerebbe una disparità di trattamento contraddittoria con la stessa ratio del principio" 

 
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