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I COSTI DELL'AUTOAMMINISTRAZIONE PDF Stampa E-mail
martedì 05 gennaio 2010

di FRANCESCO VOLPE

 

 

Giandomenico Falcon, qualche anno fa, ha usato l'espressione "autoamministrazione dei privati" per indicare quei casi in cui il controllo amministrativo sull'attività dei privati non viene svolto dall'ente pubblico in via preventiva, mediante il rilascio o il diniego di titoli abilitativi (autorizzazioni, licenze, ecc.), ma in via modo prevalentemente successivo alla presentazione della d.i.a. o alla formazione del silenzio assenso.

Nella fase antecedente, spetta al privato "autocontrollarsi''e verificare se egli sia o no in possesso dei requisiti per ottenere l'abilitazione a svolgere un'attività altrimenti a lui preclusa.

L'espressione di Falcon è felice: prova ne sia che in seguito essa è stata utilizzata da altra dottrina, pur autorevole (Duret). La parola autoamministrazione, infatti, evidenzia che ricade sul privato l'onere sostanziale del controllo.

La pubblica Amministrazione interverrà solo successivamente ed eventualmente. In tal caso, la misura amministrativa propriamente detta avrà finalità interdittive (come nel controllo preventivo).

Ma a ciò si aggiungeranno anche finalità sanzionatorie. Se il privato avrà  male compiuto l'autocontrollo, dovrà dunque rispondere per l'attività medio tempore attuata.

Al di là dei problemi giuridici, a noi tutti noti (giurisdizione, natura della della d.i.a. e del silenzio assenso, c.d. illegittimità di queste figure), vorrei soffermarmi su alcuni riflessi di scienza dell'amministrazione che possono trarsi da questi istituti.

Mi chiedo, infatti, quale sia il “costo” per il cittadino di questi rimedi e se, davvero, essi costituiscono il miglior mezzo per ovviare alle lungaggini amministrative che, altrimenti, comporterebbe il rilascio del provvedimento  espresso.

Avverto che il loro ambito di applicazione è, probabilmente, più ampio e più antico di quello della stessa d.i.a. e del silenzio.

A ben vedere, infatti, quelle molte operazioni che effettuiamo più volte all'anno con finalità tributarie, altro non sono se non forme di autoamministrazione. Che altro è la nostra dichiarazione dei redditi, dell'imponibile I.V.A., e il calcolo delle relative somme dovute all'Erario, se non una forma di autoamministrazione? Altrettanto si potrebbe dire per il modello 5 che ogni anno gli avvocati inviano alla loro Cassa di previdenza.

Ora, a nessuno sfugge che questa autoamministrazione è fonte di costi che hanno una precisa commisurazione pecuniaria, giacché credo che ben pochi osino avventurarsi a compilare di persona la dichiarazione dei redditi e indicare le imposte dovute senza l'assistenza di un professionista.

A ciò si aggiungono altri costi, non meno rilevanti patrimonialmente, legati al tempo che noi, o i nostri collaboratori, devono dedicare alla tenuta di registri e scritture contabili. In altre parole, il costo del controllo sul gettito fiscale ricade essenzialmente sullo stesso contribuente. Tale costo finisce per essere, a sua volta, una sorta di tassazione.

Si tratta di una sorta di onere diretto (non è tassa solo perché non ne benefica l'Erario) quando la dichiarazione è data da un lavoratore autonomo. È un onere indiretto, quando essa si riferisce ai redditi da lavoro dipendente, perché finisce per gravare sulle aziende in proporzione al numero di dipendenti di cui esse si giovano.

Ma i costi dell'autocontrollo non sono meno palesi, quando passiamo a considerare gli istituti che sono vicini a noi amministrativisti.

Presentare una d.i.a. o agire sulla base del silenzio assenso significa provvedersi di ausiliari e di tecnici i quali siano in grado di "certificare'' i requisiti di legittimità del provvedimento che viene ad essere così sostituito.

Vi è poi un costo ulteriore, volto a ripagare il c.d. rischio, per il caso in cui si scopra, successivamente, che la d.i.a. o il silenzio si sono mal formati e che si traduce, o si dovrebbe tradurre, in oneri assicurativi per i periti.

Vi è, infine, il costo diretto della cattiva formazione del titolo sostitutivo.

L'art. 21 della legge 241/1990 è ben chiaro nel dire che la d.i.a. o il silenzio "illegittimi'' danno luogo alle stesse sanzioni che si applicherebbero per il caso di attività svolta in assenza del titolo.

Siamo dunque certi che la d.i.a. e il silenzio assenso sono effettivamente tanto utili, così come spesso ci viene dipinto?

La risposta non del tutto affermativa che do a questa domanda trova giustificazione anche pensando al motivo per cui esistono gli atti amministrativi favorevoli e, conseguentemente, gli attuali titoli sostitutivi.

Tali atti (se non tutti, quasi: ne stanno fuori solo le concessioni traslative) muovono infatti dall'affermazione dello Stato sociale e, perciò, dall'assunzione da parte della comunità di maggiori scopi di protezione.

Tale protezione, nel nostro caso, è data rispetto all'attività degli stessi cittadini che, se svolta indiscriminatamente, potrebbe riuscire di danno agli altri consociati.

Di fronte a questo pericolo, pertanto, il sistema opera in questo modo. Preliminarmente esso pone, nei riguardi di tutti, un divieto legislativo e generale di compiere la suddetta attività.

Quindi, in deroga al medesimo divieto, l'ordinamento consente al singolo cittadino di svolgerla, in quanto il privato sia stato "autorizzato''.

E ciò avviene dopo che l'Amministrazione avrà verificato se, nel caso concreto, l'attività che s'intende intraprendere non comporti danno o se essa comporti un danno accettabile.

Da qui le ragioni del "controllo''.

Ragioni che non possono tuttavia nascondere che tale controllo sottintende una preliminare limitazione della libertà generale; che il provvedimento favorevole, in realtà, è "più cattivo'' di quello sfavorevole perché esso implica una posizione di partenza la quale è, per tutti, di divieto mentre il provvedimento “sfavorevole” muove da una posizione nativa di libertà che si va a limitare nei confronti del singolo.

Stabilita in questi termini la funzione del controllo sull'attività dei privati, si tratta di determinare, a questo punto, su chi debbano gravare i relativi costi.

Se esercitato con atto amministrativo, normalmente, il costo del suo esercizio è tratto dall'imposizione fiscale propriamente detta, ancorché si registrino casi peculiari in cui il costo ricade su chi mira ad ottenere il provvedimento (ad. es. in materia di bonifica di siti inquinati). Gli i oneri del controllo, in questa ipotesi,  ricadono sull'Amministrazione, dunque, e non sul privato. Si può dire, anzi, che il sostenimento di questi oneri costituisca la stessa ragion d'essere dell'Amministrazione deputata a svolgere il controllo medesimo.

Nel caso in cui, invece, il controllo sia sostituito dalla d.i.a. o dal silenzio, il costo ricade sul privato che intende svolgere l'attività.

È ragionevole tutto ciò? La d.i.a. e il silenzio assenso sono nati proprio per sopperire alle inefficienze dell'amministrazione. Perché mai l'interessato dovrebbe pagare, per ciò che egli è costretto a fare per porre rimedio all'''inadempienza'' della "controparte''?

Inoltre, va considerato anche qual sia il corrispettivo per i maggiori costi che gravano sul privato. Esso non è dato dalla prestazione di un servizio, da parte dell'Amministrazione, per il quale è previsto, ovviamente, il pagamento di una tassa o di un canone. Il corrispettivo, di cui il privato gode, è dato dalla possibilità di sostituirsi all'attività provvedimentale amministrativa e, perciò, all'organizzazione che, a tal fine, è costituita.

In altre parole, il privato "paga'' l'organizzazione amministrativa: anzi, "paga'' il fatto che l'organizzazione non si ingerisca.

Tuttavia, se il privato sostiene maggiori oneri in cambio della (non-) organizzazione amministrativa, allora è giocoforza chiedersi ulteriormente quale sia la ragione di tale esborso.

Infatti, al sostenimento dell'organizzazione amministrativa dovrebbe essere deputata l'imposizione fiscale ordinaria, la quale, invece, appare oggi deputata ad assolvere un dovere contributivo senza reale corrispettivo, perché sempre più spesso appare che quando il privato deve avvalersi dell'attività amministrativa egli sia tenuto a “pagare”, direttamente o indirettamente, il “disturbo”.

Inoltre, se la d.i.a. e il silenzio assenso (come il provvedimento favorevole che sostituiscono) operano in presenza di un divieto generale, stabilito per legge, occorre considerare che il privato, proprio in virtù di quel divieto, ha già subito, per così dire, una decurtazione nel suo “naturale” regime di libertà.

Certo, questo tipo di limiti, che potrebbero essere definite espropriazioni anomale (perché non attengono alla proprietà, ma incidono comunque su posizioni di libertà) non danno luogo ad indennizzo. Ma questo non giustifica che al privato tocchi sostenere oneri aggiuntivi, nel caso in cui egli intenda ripristinare le sue libertà "native''.

E siamo così arrivati a toccare il punto fondamentale.

La verità, mi pare, è che il sistema dell'autoamministrazione è stato introdotto di fronte all'incapacità dell'amministrazione di svolgere i controlli sul privato in forma ordinaria, attraverso il provvedimento preventivo.

L'autoamministrazione, a modo suo, è un ripiego e, suo tramite, il privato, posto di fronte ad un'Amministrazione inefficiente, preferisce dire (talvolta vi è costretto) che non importa che l'Amministrazione si attivi: egli "farà da sé''.

Ragioni di realpolitik possono forse portare ad accettare tutto questo.

Ma, allora, forse è meglio non mistificare le cose ed evitare di parlare, a riguardo della d.i.a. e del silenzio assenso, di liberalizzazione. In verità, qui non si liberalizza nulla, perché senza il titolo (vale a dire senza il provvedimento o senza lo strumento sostitutivo), l'attività per il privato continua ad essere vietata e porla in essere costituisce un illecito.

L'autoamministrazione è solo uno dei possibili titoli utili a superare il divieto. Rispetto al provvedimento espresso, essa dà garanzia di maggiore celerità, ma, come contraltare, essa trasferisce sul privato costi aggiuntivi e il rischio di scoprire ex post di avere agito illecitamente.

La liberalizzazione vera e propria è data dal togliere il divieto di legge.

Forse questo è un valore da perseguire, forse no. Dipende dalla visione dell'assetto sociale che ciascuno di noi ritiene essere il migliore e dipende, per la verità, dall'attività privata che in concreto si considera. Ma forse, prima di porre limiti, divieti, preclusioni, il legislatore dovrebbe considerare se, con gli apparati di cui è dotato, è in grado di esercitare un serio e tempestivo controllo diretto.

 

Ultimo aggiornamento ( martedì 05 gennaio 2010 )
 
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