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Ancora sui provvedimenti sindacali antiaccattonaggio: l' ordinanza di rimessione alla Consulta PDF Stampa E-mail
lunedì 12 aprile 2010

di Giuseppe Scuglia

TAR Veneto, sez. III , Ordinanza Collegiale 22 marzo 2010, n. 40

(dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 2, 3, 5, 6, 8, 13, 16, 17, 18, 21, 23, 24, 41, 49, 70, 76, 77, 97,113, 117 e 118 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui ha inserito la congiunzione “anche” prima delle parole “contingibili ed urgenti”).

 

 

Il TAR Veneto, dopo aver sospeso l’ordinanza del Sindaco di Selvazzano Dentro c.d. “anti-accattonaggio” (cfr. commento pubblicato su questa rivista l’11 marzo u.s.) con separata ordinanza ha rimesso gli atti del procedimento alla Corte Costituzionale.

Il Giudice Amministrativo veneziano dubita della costituzionalità dell’art. 54 del T.U.E.L., nel testo attualmente vigente, per molteplici motivi, di seguito sintetizzati:

- La norma viola i limiti di legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità. Il potere di ordinanza si deve fondare sulla contingibilità ed urgenza che costituiscono il presupposto, la condizione e il limite per consentire di derogare, nel rispetto dei soli principi generali dell'ordinamento, alla disciplina vigente nei vari settori di intervento, e per legittimare l’assunzione delle competenze in capo ad un organo monocratico, in luogo di quello ordinariamente deputato. Le norme che prevedono il potere di ordinanza devono pertanto mantenere indefettibilimente il contenuto provvedimentale dell’atto, l’obbligo di motivazione, l’efficacia limitata nel tempo delle ordinanze.

- Le ordinanze, anche se e quando - eventualmente - normative, non possono mai essere ricomprese tra le fonti dell’ordinamento giuridico, non possono innovare al diritto oggettivo, né, tanto meno, possono essere equiparate ad atti con forza di legge, per il solo fatto di essere eccezionalmente autorizzate a provvedere in deroga alla legge.

- La norma contrasta con il fondamento delle libertà individuali e con il principio di legalità sostanziale in materia di sanzioni amministrative. Infatti le prestazioni personali e patrimoniali non possono essere imposte ai singoli se non in base alla legge, in quanto solo il legislatore statale, col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, può essere interprete e custode dell’opera di bilanciamento tra valori e beni costituzionalmente rilevanti e tra loro confliggenti, mediante l’imposizione di obblighi, divieti e sanzioni. La norma ha invece attribuito un potere normativo che, dovendo rispettare solo i principi generali dell’ordinamento ed essendo disancorato da specifici e localizzati presupposti fattuali insiti nei concetti della contingibilità ed urgenza, è tendenzialmente illimitato e, in quanto tale, autorizzato a dettare regole di condotta e sanzioni che conculcano la sfera di libertà dei singoli.

- La norma autorizza una irragionevole e ingiustificata frammentazione di discipline recanti divieti, obblighi di fare e di non fare profondamente diversificati (sotto il profilo della liceità o meno delle condotte e della misura e della tipologia di sanzioni irrogabili) tra i territori dei Comuni (che nella Repubblica sono più di 8.000), in ambiti che, essendo riconducibili a diritti e libertà individuali costituzionalmente rilevanti, richiederebbero invece un esercizio unitario a livello statuale.

- La norma autorizza irragionevolmente la deroga al riparto ordinario di competenze tra gli organi dell’ente locale, in quanto il Sindaco finisce per poter attrarre alla propria competenza, ad libitum, qualsiasi ambito riservato alla competenza dei regolamenti consiliari (quali il regolamento di polizia urbana). Sotto questo profilo, il potere normativo all’esame, essendo attribuito ad un organo amministrativo monocratico, il Sindaco quale ufficiale di governo, per sua natura non contempla la possibilità di sottoporre il processo decisionale ad un trasparente confronto pubblico nell’ambito di un organo collegiale elettivo e rappresentativo, e ciò finisce per contraddire, negandone valore ed utilità, il principio pluralista, che è principio fondamentale del vigente ordinamento costituzionale, e, in particolare, il pluralismo culturale, politico, religioso e scientifico.

- La latissima discrezionalità intrinseca degli atti normativi così configurati, fa sì che i poteri attribuiti al Sindaco siano talmente “vasti ed indeterminati” da rendere eccessivamente difficoltosa la possibilità di un effettivo sindacato giurisdizionale sulle singole fattispecie.

 

Secondo il TAR non é possibile rinvenire una sufficiente delimitazione della discrezionalità normativa dei Sindaci neppure nel decreto ministeriale 5 agosto 2008, che omette di dare una chiara definizione della nozione di sicurezza urbana ed ha un contenuto, a sua volta, estremamente generico. Tale è l’indeterminatezza che la norma finisce per autorizzare l’arbitrio e la sistematica sovrapposizione con norme penali incriminatici oltre che sconfinamenti in fattispecie che sono esercizio di diritti di libertà, naturalmente attratte, per il principio della riserva di legge assoluta o relativa, alla competenza statuale, oltre che negli ambiti di competenza legislativa regionale previsti dall’art. 117 della Costituzione.

 

Si riporta il testo integrale dell’ordinanza di remissione.

 

N. 00040/2010 REG.ORD.COLL.

N. 00245/2010 REG.RIC.           


REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

Sul ricorso numero di registro generale 245 del 2010, proposto da:
Razzismo Stop Associazione Onlus, rappresentata e difesa dall'avv. Michele Dell'Agnese, con domicilio presso la Segreteria del T.A.R., ai sensi dell'art. 35 R.D. 26 giugno 1924, n. 1054;

contro

Comune di Selvazzano Dentro, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Alberto Cartia, con domicilio presso la Segreteria del T.A.R., ai sensi dell'art. 35 R.D. 26 giugno 1924, n. 1054;
Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, e il Sindaco del Comune di Selvazzano Dentro quale ufficiale di governo, non costituiti in giudizio;

per l'annullamento

dell'ordinanza del Sindaco di Selvazzano Dentro n. 91 del 19.11.2009, avente ad oggetto "ordinanza antiaccattonaggio".

 

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Vista l’ordinanza cautelare n. 160 del 3 marzo 2010;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Selvazzano Dentro;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 3 marzo 2010 il dott. Stefano Mielli e uditi per le parti i difensori avv. Dell'Agnese per la parte ricorrente e avv. Salmaso, su delega dell’avv. Cartia, per il Comune resistente;

 

FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Sindaco del Comune di Selvazzano Dentro con ordinanza n. 91 del 19 novembre 2009, adottata ai sensi dell’art. 54 del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, ha vietato l’accattonaggio, definito nelle premesse come l’attività consistente nella richiesta di denaro, in tutto il territorio comunale salvo che nelle aree agricole (il divieto è infatti esteso, oltre che in singoli luoghi puntualmente indicati - le intersezioni stradali, all’interno delle aree adibite a parcheggio, davanti e in prossimità di luoghi di culto e di cimiteri, davanti o in prossimità degli ingressi di esercizi commerciali, davanti o in prossimità di uffici pubblici - all’intero territorio dei centri abitati).

Nell’ordinanza non vi è alcun elemento volto a delimitare il divieto alle sole forme dell’accattonaggio molesto, invasivo o con lo sfruttamento di minori.

Infatti nelle premesse viene precisato che si è preso atto della presenza di soggetti che “richiedono denaro utilizzando lo strumento dell’accattonaggio anche in forma petulante e molesta, a volte accompagnandosi con infanti o avvalendosi di minori ovvero esibendo o simulando malformazioni o menomazioni e analoghi mezzi fraudolenti per cercare di destare l’altrui pietà”.

Nel dispositivo non è contenuta alcuna ulteriore precisazione o delimitazione.

Pertanto dal contenuto dell’ordinanza letta nella sua interezza, vale a dire sia nel preambolo che nel dispositivo, emerge che essa non si limita a vietare e sanzionare la sola mendicità c.d. invasiva o molesta.

Per i trasgressori è prevista l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da € 25,00 ad € 500,00, con facoltà per il trasgressore di estinguere l’illecito mediante il pagamento nella “misura ridotta” fissa di € 100,00 in caso di prima violazione, di € 250,00 in caso di seconda violazione, e di € 500,00 in caso di terza violazione, oltre alla sanzione accessoria della confisca amministrativa del denaro provento della violazione e di eventuali attrezzature impiegate nell’attività.

Dal punto di vista dell’istruttoria compiuta il Comune ha depositato in giudizio la nota prot. n. 2260 del 26 febbraio 2010 del Comandante del Consorzio di Polizia Municipale Padova Ovest (dei Comuni di Selvazzano Dentro, Rubano, Mestrino, Cervarese S. Croce e Veggiano) dalla quale non emergono elementi atti a comprovare l’esistenza di una situazione di carattere emergenziale tale da giustificare un intervento urgente (cfr. doc. 3 depositato in giudizio dal Comune).

Vi si legge infatti “si rende noto che, nel corso degli anni 2008 e 2009, a questo Consorzio sono pervenute delle telefonate da cittadini che segnalavano la presenza di persone, specialmente all’incrocio tra la via Padova e la via Aquileia e a volte all’incrocio tra la via Euganea e la via Monte Grappa, che chiedevano l’elemosina agli automobilisti fermi in colonna. Di norma all’arrivo delle pattuglie dette persone si allontanavano rendendosi irreperibili, quelle che sono state controllate sono risultate in regola con i documenti”.

2. Con ricorso tempestivamente notificato al Comune, al Sindaco quale ufficiale di Governo presso la sede municipale e presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Venezia, e al Ministro dell’Interno, tale provvedimento è impugnato dall’associazione “Razzismo stop” Onlus, per le seguenti censure:

I) violazione e falsa applicazione dell’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, travisamento, violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, carenza di istruttoria e motivazione, nonché violazione del principio di proporzionalità, con la quale si lamenta la mancanza del presupposto di un grave pericolo che minaccia l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, e la mancanza dei requisiti della contingibilità ed urgenza, ritenuti presupposti necessari per l’emanazione delle ordinanze previste dall’art. 54 citato;

II) violazione del combinato disposto dell’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, e del decreto del Ministero dell’Interno 5 agosto 2008, violazione del principio di proporzionalità, illogicità e contraddittorietà, in quanto il predetto decreto ministeriale consentirebbe di fronteggiare l’accattonaggio con l’impiego di minori e disabili o l’accattonaggio molesto e non l’accattonaggio in generale;

III) carenza di istruttoria e di motivazione, illogicità, violazione del principio di proporzionalità e violazione, sotto altro profilo, dell’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, perché si tratta di un’ordinanza a contenuto normativo ad efficacia a tempo indeterminato che esorbita dai limiti propri delle ordinanze contingibili ed urgenti;

IV) violazione delle statuizioni contenute nella sentenza della Corte Costituzionale 28 dicembre 1995, n. 519, con la quale - sulla scorta della considerazione che la tutela dei beni giuridici della tranquillità pubblica, con qualche riflesso sull'ordine pubblico, non può dirsi seriamente posta in pericolo dalla mera mendicità che si risolve in una semplice richiesta di aiuto - è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 670 c.p.;

V) illogicità, violazione dell’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, violazione del principio di proporzionalità, disparità di trattamento, violazione delle norme di cui agli artt. 759 e ss. del c.c. in materia di donazione, determinata dalla previsione della confisca;

VI) violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689, che detta in via generale le regole per il pagamento in misura ridotta delle sanzioni amministrative;

VII) violazione e falsa applicazione dell’art. 54, comma 5, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, illogicità, e violazione dell’art. 97 della Costituzione e dell’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, sotto i profili del mancato coordinamento con i Comuni contigui e limitrofi.

Si è costituito in giudizio il Comune di Selvazzano Dentro eccependo l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, difetto di legittimazione e difetto di giurisdizione.

Il Collegio, ritenuto ad una prima delibazione il ricorso ammissibile, con ordinanza n. 160 del 4 marzo 2010, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della fonte legislativa sulla base della quale è stata adottata l’ordinanza impugnata, nella parte in cui demanda al Sindaco in via ordinaria vasti ed indeterminati poteri in tema di tutela dell'incolumità pubblica e della sicurezza urbana autorizzati, nel rispetto dei soli principi generali dell'ordinamento, a derogare alla legge, ha accolto la domanda cautelare, rinviandone il successivo esame alla Camera di consiglio che sarà fissata dopo la comunicazione della decisione della Corte Costituzionale.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Come è noto l’art. 6 del decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, nell’ottica di adottare misure finalizzate a rendere più efficaci gli strumenti di prevenzione e di repressione dei fenomeni delittuosi attraverso misure di rafforzamento dei poteri pubblici territoriali, ha notevolmente ampliato i compiti del Sindaco, quale ufficiale di governo, nelle funzioni di competenza statale, in materia di ordine e sicurezza pubblica, e sicurezza urbana.

In particolare, a seguito delle modifiche apportate dal decreto legge, l’art. 54, comma 4, del Dlgs. n. 267 del 2000 ha assunto la seguente fisionomia:“Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono tempestivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione”.

In sede di conversione del decreto legge la norma è stata riformulata nel seguente testo: “Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione” (in corsivo le modifiche apportate).

Per effetto della legge di conversione è stato pertanto attribuita al Sindaco, accanto al tradizionale potere di adottare provvedimenti contingibili ed urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini, la possibilità di adottare ordinanze anche non contingibili ed urgenti.

2. Preliminarmente è necessario soffermarsi sui presupposti e le condizioni dell’azione al fine di evidenziare la rilevanza della questione di legittimità costituzionale per la decisione dell’odierno ricorso, che il Comune resistente eccepisce come insussistenti.

2.1 La ricorrente è un’associazione iscritta al registro regionale delle organizzazioni di volontariato (cfr. docc. 3 e 4 allegati al ricorso) che, come risulta dallo statuto (cfr. doc. 2 allegato al ricorso), persegue obiettivi e finalità di solidarietà sociale in favore degli stranieri, indipendentemente dalla loro provenienza e dal loro status giuridico, fornendo assistenza materiale e morale per superare situazioni di disagio e contribuendo a diffondere la solidarietà umana tra i popoli e la pratica e la difesa delle libertà civili, individuali e collettive.

Espone che, fin dalla sua fondazione, si è impegnata in azioni concrete a tutela dei diritti civili intraprendendo numerose iniziative in favore di soggetti indigenti e colpiti da discriminazioni, operando nel territorio della Provincia di Padova e anche nel Comune di Selvazzano Dentro.

Per comprovare tale circostanza allega copia di articoli di stampa quotidiana che fin dal 1993 attestano lo svolgimento di attività in favore dell’integrazione di Rom e Sinti (cfr. docc. 10 e 14 allegati al ricorso), l’erogazione in suo favore di contributi nel 1994 da parte della Provincia di Padova per interventi sul disagio sociale dell’immigrazione da realizzare nel Comune di Selvazzano Dentro (cfr. doc. 12 allegato al ricorso).

2.2 Detta associazione comprova anche di essere iscritta all’elenco e al registro delle associazioni di cui agli artt. 5 e 6 del Dlgs. 9 luglio 2003, n. 215.

Il Dlgs. 9 luglio 2003, n. 215, recepisce e dà attuazione alla direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica.

La direttiva 2000/43/CE afferma (cfr. il terzo, il diciannovesimo e ventesimo considerando):

- che “il diritto all'uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione di tutte le persone contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo”;

- che “l'efficace attuazione del principio di parità richiede un'adeguata protezione giuridica in difesa delle vittime”;

- che “le vittime di discriminazione a causa della razza o dell'origine etnica dovrebbero disporre di mezzi adeguati di protezione legale. Al fine di assicurare un livello più efficace di protezione, anche alle associazioni o alle persone giuridiche dovrebbe essere conferito il potere di avviare una procedura, secondo le modalità stabilite dagli Stati membri, per conto o a sostegno delle vittime, fatte salve norme procedurali nazionali relative a rappresentanza e difesa in giustizia”.

L’art. 7, comma 2, della direttiva, in attuazione di tali principi, dispone che “gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un legittimo interesse a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all'esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva”.

L’art. 5 del Dlgs. 9 luglio 2003, n. 215, rubricato “legittimazione ad agire”, al comma 1 dispone che “sono legittimati ad agire ai sensi degli articoli 4 e 4-bis, in forza di delega, rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell'azione” e, ciò che più rileva in questa sede, al comma 3 prevede che “le associazioni e gli enti inseriti nell'elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi degli articoli 4 e 4-bis nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione”.

La ricorrente comprova di essere iscritta dal 10 luglio 2005 al registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni di cui all’art. 6 del Dlgs. 9 luglio 2003, n. 215, (cfr. doc. 5 allegato al ricorso), e all’elenco di cui all’art. 5 del Dlgs. 9 luglio 2003, n. 215 (cfr. doc. 16 allegato al ricorso).

Il fenomeno è inquadrabile nella nota tendenza legislativa volta a riconoscere legittimazione processuale alle associazioni il cui fine statutario sia quello della tutela di interessi superindividuali (in materia ambientale con l’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349; per i consumatori con gli artt. 137 e 139 del Dlgs. 6 settembre 2005, n. 206; per persone con disabilità vittime di discriminazioni con l’art. 4 della legge 1 marzo 2006, n. 67).

2.3 Il Collegio ritiene non possa essere negato che la povertà e l’esclusione sociale sono spesso la causa che determina la richiesta di aiuti economici facendo appello all’altrui solidarietà.

La povertà e l’esclusione sociale sono fenomeni complessi che riguardano in particolar modo anche i migranti e le minoranze etniche.

Come afferma il tredicesimo considerando della decisione n. 1098/2008/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2008, che ha designato il 2010 <<anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale>>, “il problema della povertà e dell’esclusione sociale assume forme estese, complesse e multidimensionali. Esse sono correlate ad un ampio numero di fattori, ad esempio al reddito e alle condizioni di vita, alla necessità di possibilità di istruzione e di lavoro dignitoso, all’efficacia dei sistemi di protezione sociale, all’alloggio, all’accesso a servizi sanitari di qualità, e alla cittadinanza attiva” e vi è un “rischio elevato di povertà e/o di esclusione al quale sono esposti gruppi particolari, tra cui bambini, giovani che abbandonano prematuramente gli studi, famiglie monoparentali, famiglie numerose, famiglie monoreddito, giovani, in particolare giovani donne, persone anziane, migranti e minoranze etniche, disabili e persone che se ne occupano, senzatetto, disoccupati, in particolare i disoccupati di lunga durata, detenuti, donne e bambini vittime di violenza”.

La Corte Costituzionale con la sentenza 28 dicembre 1995, n. 519, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 670, primo comma, del codice penale, ha affermato che l’ordinamento vigente non consente la repressione di per sé della mendicità che si risolve in una semplice richiesta di aiuto, e che “gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano le società più avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, sì che senza indulgere in atteggiamenti di severo moralismo non si può non cogliere con preoccupata inquietudine l'affiorare di tendenze, o anche soltanto tentazioni, volte a "nascondere" la miseria e a considerare le persone in condizioni di povertà come pericolose e colpevoli. Quasi in una sorta di recupero della mendicità quale devianza, secondo linee che il movimento codificatorio dei secoli XVIII e XIX stilizzò nelle tavole della legge penale, preoccupandosi nel contempo di adottare forme di prevenzione attraverso l’istituzione di stabilimenti di ricovero (o ghetti?) per i mendicanti. Ma la coscienza sociale ha compiuto un ripensamento a fronte di comportamenti un tempo ritenuti pericolo incombente per una ordinata convivenza, e la società civile consapevole dell'insufficienza dell'azione dello Stato ha attivato autonome risposte, come testimoniano le organizzazioni di volontariato che hanno tratto la loro ragion d'essere, e la loro regola, dal valore costituzionale della solidarietà.”.

In questo contesto il Collegio ritiene di poter individuare nell’ordinanza impugnata, che vieta la mendicità anche non invasiva in tutto il territorio comunale, salvo che nelle aree agricole, una forma di discriminazione - tanto più evidente ove si consideri la lesione alla dignità sociale che deriva dalla stigmatizzazione insita nella previsione di una sanzione - che colpisce in via diretta tutti i soggetti che ricorrono alla richiesta di aiuti economici facendo appello all’altrui solidarietà, e in via indiretta (che si verifica ogniqualvolta “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone: cfr. art. 2, comma 1, lett. b, del Dlgs. 9 luglio 2003 n. 215) le categorie dei migranti e delle minoranze etniche, quali quella dei Rom, che, secondo l’id quod plerumque accidit, ricorrono con maggiore frequenza alla mendicità. Pertanto, nonostante l’ordinanza vieti comportamenti definiti in modo oggettivo, in via indiretta risulta indirizzata a gruppi appartenenti a minoranze etniche, il che rileva ai fini della legittimazione della parte ricorrente ai sensi del Dlgs. 9 luglio 2003 n. 215.

2.4 Come la giurisprudenza ha già avuto occasione di affermare, il principio costituzionale di favore per il pluralismo sociale e di tutela dei singoli anche nelle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità, implica che le associazioni abbiano titolo ad agire in sede giurisdizionale per tutelare sia posizioni soggettive proprie, sia, ed è questo il caso all’esame, interessi del gruppo del quale costituiscono stabile centro di riferimento, in considerazione della corrispondenza tra le finalità annoverate dallo statuto della formazione sociale e quelle assunte a tutela dalla formazione stessa (ex pluribus cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. III, ordinanza 8 maggio 2008, n. 717; Consiglio di Stato, Sez. V, 12 agosto 1998, n. 1261; Consiglio di Stato, Sez. IV, 14 luglio 1995, n. 562; id. 13 luglio 1993, n. 531; Consiglio di Stato, Sez. IV, 12 maggio 1990, n. 374).

Pertanto le finalità statutarie dell’associazione ricorrente a tutela di diritti e libertà individuali e metaindividuali e di interessi sociali di carattere solidaristico e assistenziale incisi dal contenuto dell’ordinanza impugnata, nonché lo stabile collegamento dell’associazione con i territori interessati (la Provincia di Padova e il Comune di Selvazzano Dentro), lo svolgimento dell’attività protratto nel tempo, unitamente al riconoscimento normativo di una legittimazione straordinaria a tutela dei predetti interessi, alla stregua di consolidata giurisprudenza in materia di legittimazione delle associazioni non riconosciute a tutela di interessi superindividuali, costituiscono, a giudizio del Collegio, indici per il riconoscimento in capo alla parte ricorrente di una situazione legittimante in ragione della presenza di una posizione differenziata e qualificata, e della sussistenza di interesse ad agire.

2.5 E’ invece da respingere il tentativo del Comune resistente di affermare che, ai sensi degli artt. 4 del Dlgs. 9 luglio 2003 n. 215, e 44 del Dlgs. 25 luglio 1998, n. 286, la tutela contro discriminazioni dirette ed indirette potrebbe essere fatta valere solo avanti al giudice ordinario.

Infatti l’atto impugnato è un tipico atto amministrativo, frutto di discrezionalità del Sindaco quale ufficiale di governo, impugnato attraverso la deduzione di tipici vizi di legittimità, e pertanto non può che affermarsi la giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo e, come è stato osservato (cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 16 luglio 2009 , n. 4392) “non vale ad infirmare una tale conclusione la circostanza che il contenuto del provvedimento concerna diritti fondamentali, atteso che non si rinviene <<alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario - escludendone il giudice amministrativo - la tutela dei diritti costituzionalmente protetti>> (Corte cost., sent. n. 140 del 2007; si veda anche Consiglio di Stato, Ad. plen., 22 ottobre 2007, n. 12)” e non appare altresì “conferente nemmeno il riferimento alla procedura prevista dall'art. 4 del D. Lgs. n. 215 del 2003, in quanto la stessa non è sostitutiva dei mezzi di tutela ordinari, ma rappresenta uno strumento aggiuntivo e ulteriore che va a rafforzare la protezione nel caso di discriminazioni. Del resto appare molto chiaro al proposito il considerando n. 25 della Direttiva del Consiglio 2000/43/CE, di cui il richiamato D. Lgs. n. 215 costituisce attuazione, allorquando stabilisce che la presente direttiva fissa requisiti minimi, lasciando liberi gli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli. L'attuazione della presente direttiva non dovrebbe servire da giustificazione per un regresso rispetto alla situazione preesistente in ciascuno Stato membro".

Ove fosse accolta la tesi difensiva del Comune si porrebbe il problema dell’errata o mancata trasposizione nell’ordinamento nazionale della direttiva del Consiglio 2000/43/CE di cui, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, non può essere neutralizzato l’effetto utile.

In definitiva le eccezioni preliminari sollevate dal Comune devono essere respinte e il ricorso risulta ammissibile.

3. In merito alla rilevanza della questione ai fini del presente giudizio il Collegio osserva quanto segue.

Con il primo e terzo motivo la parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, per la mancanza, nell’ordinanza impugnata, dei presupposti di contingibilità ed urgenza, e di una delimitazione temporale di efficacia delle disposizioni adottate, mentre con il quinto motivo lamenta la violazione delle statuizioni contenute nella sentenza della Corte Costituzionale 28 dicembre 1995, n. 519, con la quale, sulla scorta della considerazione che la tutela dei beni giuridici della tranquillità pubblica, con riflessi sull'ordine pubblico, non può dirsi seriamente posta in pericolo dalla mendicità che si risolve in una semplice richiesta di aiuto, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 670 c.p..

A pagina 6 del ricorso viene prospettata la possibile illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, laddove, innovando rispetto alla precedente tradizione, sembra attribuire al Sindaco il potere di emanare provvedimenti extra ordinem anche al di fuori dei casi contingibili ed urgenti.

Il Comune nel costituirsi in giudizio chiede la reiezione delle censure proposte per i seguenti rilievi:

- l’ordinanza impugnata costituisce un “atto a carattere generale, funzionale a dettare una disciplina, anche a carattere sanzionatorio, con riferimento all’esercizio all’interno del territorio comunale, destinata a trovare applicazione ad una pluralità di casi indistinti” (cfr. pag. 3 del controricorso),

- la legge 24 luglio 2008, n. 125, di conversione del decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, consente ai Sindaci l’emanazione di provvedimenti sforniti del carattere della contingibilità ed urgenza ed in assenza di specifici limiti temporali di durata (cfr. pag. 10 del controricorso);

- la normativa vigente, avendo previsto la possibilità per il Sindaco di adottare ordinanze “anche” contingibili ed urgenti a tutela dell’incolumità e della sicurezza urbana, ha eliminato la necessità di qualsivoglia limite temporale di efficacia (cfr. pag. 12 del controricorso).

Il Collegio concorda con l’interpretazione prospettata nelle difese del Comune della norma di cui all’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, e ritiene che di tale disposizione non sia possibile, per i motivi in seguito esposti, darne una lettura costituzionalmente orientata, dubitando quindi della sua legittimità costituzionale per aver previsto in capo al Sindaco, quale ufficiale di governo, mediante l’inserimento della congiunzione “anche” prima delle parole “contingibili ed urgenti”, un potere normativo vasto ed indeterminato, privo di elementi idonei a delimitarne la discrezionalità, solo finalisticamente orientato - nel rispetto esclusivamente dei principi generali dell’ordinamento e quindi finanche in deroga alle norme di legge e all’assetto delle competenze amministrative vigenti - alla eliminazione e semplice prevenzione di pericoli che minacciano, oltre che l’incolumità pubblica, anche la sicurezza urbana.

L’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione di cui all’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, comporterebbe necessariamente l’accoglimento delle predette censure proposte con il ricorso introduttivo, non suscettibili di assorbimento avuto riguardo all’interesse azionato e ai principi di effettività della tutela giurisdizionale e del controllo costituzionale sulle leggi, mentre un’eventuale pronuncia di infondatezza comporterebbe necessariamente la loro reiezione.

Di qui la rilevanza della questione nel presente giudizio.

4. Peraltro ogni tentativo di addivenire ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, onde superare l’elemento della rilevanza, a giudizio del Collegio approda ad esiti che si pongono in irrimediabile contrasto con il tenore letterale e la ratio della norma.

In primo luogo vi è da osservare che la congiunzione “anche” non è stata determinata da un errore di formulazione che consenta di depotenziarne, in via interpretativa, il significato, ritenendo ancora vigenti per tale tipo di ordinanze i principi elaborati dalla giurisprudenza per l’ammissibilità delle ordinanze contingibili ed urgenti.

Infatti è stata appositamente inserita durante la discussione in Assemblea al Senato della conversione in legge del decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, con l’emendamento del Governo 6.1000, nella seduta pomeridiana del 18 giugno 2008.

Neppure sono condivisibili le tesi secondo cui la norma dovrebbe essere interpretata, nonostante il suo tenore letterale, nel senso che le ordinanze non sarebbero tutt’ora autorizzate a derogare alla legge o a creare norme nuove, quanto piuttosto a modulare le norme esistenti.

Infatti è vero che nella norma è rimasto il riferimento alla necessità di una motivazione, tuttavia la congiunzione “anche” comporta che tali ordinanze possano prescindere dall’accertamento di situazioni specifiche e localizzate, per assumere efficacia a tempo indeterminato su tutto il territorio comunale, e ciò gli attribuisce indubbiamente una valenza marcatamente normativa, che per sua natura prescinde dalla necessità di una motivazione (cfr. art. 3, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241).

Neppure appare possibile ritenere che tali ordinanze siano tenute, nel rapporto con altre fonti, al rispetto delle altre norme di legge e delle competenze di altri organi amministrativi legislativamente prefissate.

Quanti hanno proposto tale lettura hanno infatti enfatizzato la necessità, espressa anche dalla norma novellata, che le ordinanze rispettino i principi generali dell’ordinamento, sostenendo che tra questi dovrebbero annoverarsi anche i principi di tipicità degli atti amministrativi, di legalità, intesa come sottoposizione alla legge degli atti amministrativi, di riserva di legge e di competenza.

La tesi non persuade, in quanto la norma, unificando le fattispecie delle ordinanze contingibili ed urgenti e delle ordinanze anche non contingibili ed urgenti, detta un’unica disciplina, e l’interpretazione proposta, oltre che del tutto priva di riscontri testuali, sconta il difetto di sottoporre anche i provvedimenti urgenti dettati dalla necessità di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini, ad una tipicità che non è per sua natura compatibile con la versatilità e duttilità proprie di un provvedimento necessario a corrispondere adeguatamente a situazioni non fronteggiabili con gli strumenti ordinari.

La giurisprudenza non ha mancato di rimarcare il carattere ordinario, discrezionale e libero, del potere di ordinanza di nuova configurazione (cfr. Tar Lazio, Roma, Sez. II, 22 dicembre 2008, n. 12222, punto 6 in diritto).

La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza 8 luglio 2009, n. 196, resa a seguito dell’impugnazione in via principale della norma da parte della Provincia autonoma di Bolzano, nel definire “vasti ed indeterminati” i nuovi poteri del Sindaco finalizzati all’attività di “prevenzione e repressione dei reati” (con conseguente applicabilità della sanzione penale di cui all’art. 650 c.p. in caso di violazione, con l’edificazione di quello che è stato definito, con efficace espressione, come un nuovo “ordinamento penale municipale”), riconosce la natura solo formalmente provvedimentale, ma a contenuto generale e quindi sostanzialmente normativo, delle ordinanze di nuova introduzione, laddove, al punto 9.1 in diritto, afferma che “tra le maggiori innovazioni introdotte dall'art. 6 del decreto-legge n. 92 del 2008 nella previgente legislazione vi è la possibilità riconosciuta ai Sindaci dall'attuale comma 4 dell'art. 54 del testo unico degli enti locali non solo di emanare ordinanze contingibili ed urgenti, ma anche di adottare provvedimenti di ordinaria amministrazione a tutela di esigenze di incolumità pubblica e sicurezza urbana”.

4.1 Infine inducono a ritenere non percorribile un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma sospettata di illegittimità costituzionale, le numerosissime ordinanze adottate dai Sindaci che hanno pacificamente interpretato la norma come attributiva di un potere normativo libero, illimitato, con carattere di permanenza ed in deroga all’ordinamento, senza considerare la possibile incisione di diritti fondamentali e libertà garantite dalla Costituzione con riserve di legge relative o assolute (ad esempio, quanto ai casi che hanno avuto maggiore risalto sulla stampa, è stata vietata e sanzionata la mancata esposizione del crocifisso negli uffici pubblici, l’uso del burka, la realizzazione di luoghi di preghiera per i musulmani, la sosta di più di tre persone in corrispondenza di panchine o luoghi predeterminati, il sedersi ai bordi di una fontana per le persone di età compresa tra i 12 e i 60 anni, la mancata esposizione di lumini sui balconi privati durante una festa religiosa, la vendita, negli esercizi pubblici, di alimenti propri della cucina di altre etnie ecc.).

Giova sottolineare che in passato la Corte Costituzionale con sentenza 2 luglio 1956, n. 8, ebbe a dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale della norma attributiva del potere di ordinanza al Prefetto di cui all’art. 2 del R.D. 18 giungo 1931, n. 773, con una sentenza interpretativa di rigetto, con la quale sancì che la norma doveva essere interpretata nel senso che le ordinanze dovevano avere efficacia strettamente limitata nel tempo; con sentenza 27 maggio 1961, n. 26, ebbe invece a dichiarare incostituzionale la norma prendendo atto, dalle copie di ordinanze depositate in giudizio, che molti Prefetti avevano emanato ordinanze con carattere di permanenza.

Orbene, il Collegio non può allora sottacere che lo studio “Oltre le ordinanze, i sindaci e la sicurezza urbana” svolto da Cittalia, Fondazione Anci Ricerche, aggiornato al mese di marzo 2009 (reperibile su www.cittalia.it), ha censito oltre 600 ordinanze, accertando che gran parte di esse “riguardano, per lo più, l’intero territorio comunale o vaste zone di esso; si riferiscono a fattispecie astrattamente identificabili; hanno carattere generale; non sono ad efficacia temporanea limitata”, si esplicitano “quale fonte derogatoria di precedenti disposizioni regolamentari locali, senza che però sussistano gli specifici presupposti della eccezionalità connessa alla necessità ed urgenza del provvedere”, e vi sono “taluni profili disciplinati con le ordinanze che, in quanto implicanti delicati profili attinenti al godimento di diritti e libertà individuali, richiederebbero prioritariamente una disciplina statale, che ne garantisse la eguale fruizione su tutto il territorio nazionale”.

Può pertanto affermarsi, oltre ogni ragionevole dubbio, l’impraticabilità di qualsivoglia interpretazione adeguatrice, in quanto la norma, nella sua indeterminata latitudine, in materie afferenti a diritti e libertà individuali, continuerebbe altrimenti a dare adito ad arbitrarie interpretazioni, mantenendo prassi ambigue ed incerte, modificabili a piacimento dal Sindaco secondo la propria Weltanschauung, e ispirate al fine di mantenere o accrescere il consenso da cui l’organo politico trae la propria legittimazione.

5. Delineati i caratteri propri del potere di ordinanza configurato dall’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, il Collegio ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di detta norma, nella parte in cui ha inserito la congiunzione “anche” prima delle parole “contingibili ed urgenti”.

In primo luogo la norma della cui legittimità costituzionale si dubita, nel prevedere un potere d’ordinanza così configurato, viola i limiti costituzionali di legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità enucleabili dagli artt. 23, 97, 70, 76, 77 e 117 della Costituzione e chiaramente sanciti dalle sentenze della Corte Costituzionale 2 luglio 1956, n. 8, 27 maggio 1961, n. 26 e 4 gennaio 1977, n. 4, e 28 maggio 1987 , n. 201.

In base a tali pronunce risulta che il potere di ordinanza si deve fondare sulla contingibilità ed urgenza che costituiscono il presupposto, la condizione e il limite per consentire di derogare, nel rispetto dei soli principi generali dell'ordinamento, alla disciplina vigente nei vari settori di intervento, e per legittimare l’assunzione delle competenze in capo ad un organo monocratico, in luogo di quello ordinariamente deputato.

Le norme che prevedono il potere di ordinanza devono pertanto mantenere indefettibilimente il contenuto provvedimentale dell’atto, l’obbligo di motivazione, l’efficacia limitata nel tempo delle ordinanze.

Le ordinanze inoltre, anche se e quando - eventualmente - normative, non possono poi mai essere ricomprese tra le fonti dell’ordinamento giuridico, non possono innovare al diritto oggettivo, né, tanto meno, possono essere equiparate ad atti con forza di legge, per il sol fatto di essere eccezionalmente autorizzate a provvedere in deroga alla legge.

Sotto questo profilo l’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, avendo previsto una vera e propria fonte normativa libera con valore equiparato a quello della legge, viola pertanto la riserva di legge di cui agli artt. 23 e 97, e gli artt. 70, 76, 77 e 117 che demandano in via esclusiva alle assemblee legislative statali e regionali il compito di emanare atti aventi forza e valore di legge.

5.1 Risultano altresì violati gli artt. 3, 23 e 97 della Costituzione quali norme che costituiscono il fondamento costituzionale delle libertà individuali e del principio di legalità sostanziale in materia di sanzioni amministrative, cristallizzato, a livello di normazione primaria, nell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

Infatti l’art. 23 della Costituzione prevede che le prestazioni personali e patrimoniali non possono essere imposte ai singoli se non in base alla legge, in quanto solo il legislatore statale, col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, può essere interprete e custode dell’opera di bilanciamento tra valori e beni costituzionalmente rilevanti e tra loro confliggenti, mediante l’imposizione di obblighi, divieti e sanzioni.

E’ vero che si tratta di una riserva relativa e non assoluta di legge.

Tuttavia la giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 4 del 1957, ma altrettanto significativa è la sentenza n. 447 del 1988, ha indicato i limiti e le garanzie necessarie a far ritenere rispettato il principio della riserva di legge relativa stabilito dall'art. 23 della Costituzione, precisando che la legge deve stabilire i criteri idonei a regolare eventuali margini di discrezionalità lasciati alla pubblica amministrazione nella determinazione in concreto della prestazione ed inoltre che, al fine di escludere che la discrezionalità possa trasformarsi in arbitrio, la legge deve determinare direttamente l'oggetto della prestazione stessa ed i criteri per quantificarla.

La norma della cui legittimità costituzionale si dubita ha invece attribuito un potere normativo che, dovendo rispettare solo i principi generali dell’ordinamento ed essendo disancorato da specifici e localizzati presupposti fattuali insiti nei concetti della contingibilità ed urgenza, è tendenzialmente illimitato e, in quanto tale, autorizzato a dettare regole di condotta e sanzioni che conculcano la sfera di libertà dei singoli garantita invece dal principio «silentium legis, libertas civium ».

Peraltro non pare possibile rinvenire una sufficiente delimitazione della discrezionalità normativa nel decreto ministeriale 5 agosto 2008, adottato ai sensi dell’art. 54, comma 4 bis, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, che è una fonte anomala, di dubbia valenza (è stato definito come recante mere linee guida dalla sentenza Tar Lazio, Roma, sez. II, 22 dicembre 2008, n. 12222), che omette di dare una chiara definizione della nozione di sicurezza urbana ed ha un contenuto, a sua volta, estremamente generico.

Tale è l’indeterminatezza che la norma finisce per autorizzare l’arbitrio e la sistematica sovrapposizione con norme penali incriminatici (è il caso ad esempio delle ordinanze sulla vendita di alcolici a minori di anni 16 o sullo spaccio di droga) oltre che sconfinamenti in fattispecie che sono esercizio di diritti di libertà, naturalmente attratte, per il principio della riserva di legge assoluta o relativa, alla competenza statuale, con conseguente violazione degli artt. 13 sulla libertà personale, 16 sulla libertà di circolazione e soggiorno, 17 sulla libertà di riunione, e 41 in materia di disciplina dell’iniziativa economica (ad esempio con i divieti generalizzati alla vendita di alcolici in deroga alle norme statali e regionali vigenti o i divieti che fissano limiti di reddito per l’iscrizione all’anagrafe di cittadini comunitari ed extracomunitari previa dimostrazione della liceità delle loro risorse economiche), oltre che negli ambiti di competenza legislativa regionale previsti dall’art. 117 della Costituzione.

5.2 La norma della cui legittimità costituzionale si dubita, autorizza inoltre una irragionevole e ingiustificata frammentazione di discipline recanti divieti, obblighi di fare e di non fare profondamente diversificati (sotto il profilo della liceità o meno delle condotte e della misura e della tipologia di sanzioni irrogabili) tra i territori dei Comuni (che nella Repubblica sono più di 8.000), in ambiti che, essendo riconducibili a diritti e libertà individuali costituzionalmente rilevanti, richiederebbero invece un esercizio unitario a livello statuale.

Ne risultano vulnerati, in combinato disposto con il criterio della ragionevolezza di cui all’art. 3, i principi di uguaglianza di cui all’art. 2, di unità ed indivisibilità della Repubblica di cui all’art. 5, di legalità di cui all’art. 97 della Costituzione, e di riparto delle funzioni amministrative di cui all’art. 118.

5.3 Sotto altro profilo si deve sottolineare che la norma autorizza irragionevolmente anche la deroga al riparto ordinario di competenze tra gli organi dell’ente locale, in quanto il Sindaco finisce per poter attrarre alla propria competenza, ad libitum, qualsiasi ambito riservato alla competenza dei regolamenti consiliari (quali il regolamento di polizia urbana).

Sotto questo profilo, il potere normativo all’esame, libero perché solo finilisticamente orientato, essendo attribuito ad un organo amministrativo monocratico, il Sindaco quale ufficiale di governo, per sua natura non contempla la possibilità di sottoporre il processo decisionale ad un trasparente confronto pubblico nell’ambito di un organo collegiale elettivo e rappresentativo, e ciò finisce per contraddire, negandone valore ed utilità, il principio pluralista, che è principio fondamentale del vigente ordinamento costituzionale, e, in particolare, il pluralismo culturale, politico, religioso e scientifico di cui sono espressione gli artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e 49 della Costituzione.

5.4 Risultano infine violati gli artt. 24 e 113 della Costituzione perché, la latissima discrezionalità intrinseca degli atti normativi così configurati, fa sì che i poteri attribuiti al Sindaco siano talmente “vasti ed indeterminati” (in tali termini il punto 7 in diritto della sentenza della Corte Costituzionale 1 luglio 2009, n. 196) da rendere eccessivamente difficoltosa la possibilità di un effettivo sindacato giurisdizionale sulle singole fattispecie.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, III Sezione, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 2, 3, 5, 6, 8, 13, 16, 17, 18, 21, 23, 24, 41, 49, 70, 76, 77, 97,113, 117 e 118 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui ha inserito la congiunzione “anche” prima delle parole “contingibili ed urgenti”.

Sospende il giudizio in corso e dispone, a cura della segreteria della Sezione, che gli atti dello stesso siano trasmessi alla Corte Costituzionale per la risoluzione della prospettata questione, nonché la notifica della presente ordinanza alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei ministri e la comunicazione della medesima ai Presidenti dei due rami del Parlamento.

Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 3 marzo 2010 con l'intervento dei Magistrati:

Giuseppe Di Nunzio, Presidente

Elvio Antonelli, Consigliere

Stefano Mielli, Primo Referendario, Estensore

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 22/03/2010

IL SEGRETARIO

Ultimo aggiornamento ( lunedì 12 aprile 2010 )
 
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