Associazione Avvocati Amministrativisti Veneto Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti
Cerca >> 
 Ultimo aggiornamento del sito: mercoledì 17 maggio 2017
Home arrow Varie arrow Contributi arrow CRITERI DI TARIFFAZIONE E PARCELLAZIONE DA APPLICARE NELLE CONTROVERSIE DI NATURA AMMINISTRATIVA
Home
Associazione
Elenco associati
Seminari
Contattaci
Documenti
Links
Conferenze ed eventi
modulo iscrizione
Amministratore
CRITERI DI TARIFFAZIONE E PARCELLAZIONE DA APPLICARE NELLE CONTROVERSIE DI NATURA AMMINISTRATIVA PDF Stampa E-mail
mercoledì 14 aprile 2010

di FRANCESCO MAZZAROLLI 

* relazione al Seminario organizzato dall'Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti in data 27 marzo 2010. 

1. Il tema che viene trattato nel seminario è un tema che mette in difficoltà per la sua sostanziale aridità.

     Aridità delle fonti normative, aridità dei documenti da consultare, aridità, se non inesistenza, di giurisprudenza da richiamare.

     Si tratta però di un tema che è di una ricchezza innegabile, non fosse altro perché tocca le tasche di tutti noi e, come vedremo, le tocca in maniera assai rilevante, a seconda delle soluzioni che si intendono applicare alla fattispecie.

     Vale la pena, per restare nella parte più arida della presente relazione, compiere un breve excursus dei presupposti normativi sui quali si incentra la nostra conversazione.

     Dunque, non si può non richiamare il R.D.L. 27\11\1933 n. 1578, il fondamento dell’ordinamento della nostra professione, che, all’art. 57, dispone degli “onorari degli avvocati e degli (allora) procuratori e dei rimborsi delle spese,” stabilendo nella versione originaria che “il direttorio di ciascun sindacato di avvocati e procuratori stabilisce ogni cinque anni per la propria circoscrizione i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità dovute in materia sia giudiziale sia stragiudiziale”.

     Questa norma è tuttora in vigore con le modifiche apportate dal D. Lgs. 22\2\1946 n. 170, che ha ridotto ad un biennio la cadenza entro cui il C.N.F. stabilisce i criteri per la determinazione degli onorari.

     Stesso termine e stesse modalità sono contenute nell’art. 1 della L. 3\8\1946 n. 536 per quanto attiene alla materia penale e stragiudiziale e nell’art. unico della L. 7\11\1957 n. 1501 per quanto attiene alla materia civile, amministrativa e tributaria.

     Interessante è porre in evidenza come il termine biennale entro cui provvedere all’aggiornamento delle tariffe è stato da subito reputato ordinatorio, cosicchè gli aggiornamenti si sono dilatati nel tempo, con conseguenze evidentemente rilevanti per gli avvocati che, specialmente in anni di inflazione galoppante, si sono trovati ad applicare tariffe certo inadeguate.

     Basti pensare che, per restare in tempi relativamente recenti, solo con D.M. 8\4\2004 n. 127, si è provveduto ad aggiornare la tabella professionale dopo ben dieci anni dall’ultimo intervento.

     Ma, andando con ordine, per un completo inquadramento della normativa che si è succeduta sul tema che ci interessa, è necessario fare un passo indietro e risalire al 1990, anno nel quale, con D.M. n. 392 del 24 novembre 1990, è stata approvata la deliberazione del C.N.F. con i criteri per la determinazione degli onorari che è l’ultima che, nel solco della “tradizione” precedente nulla di specifico dispone per la specifica materia dei ricorsi avanti alla giustizia amministrativa.

     Invero, nell’esaminare quel tariffario, all’art. 5, si trova, come criterio di valutazione degli onorari a carico del cliente, il generale richiamo ai risultati del giudizio e i vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti dal cliente.

     La riporto testualmente.

Art. 5, comma 3: “Nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, oltre che dei criteri di cui ai commi precedenti, può essere tenuto conto dei risultati del giudizio e dei vantaggi, anche non patrimoniali, conseguiti dal cliente”.

     All’art. 6, dedicato espressamente alla determinazione del valore della controversia, si legge:

Nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, il valore della causa è determinato a norma del codice di procedura civile, avendo riguardo nei giudizi per azioni surrogatorie e revocatorie, all’entità economica della ragione di credito alla cui tutela l’azione è diretta, nei giudizi di divisione, alla quota o ai supplementi di quota in contestazione, nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni, alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata.

Nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile”.

     Dunque, sino alla tabella approvata nel 1990, nulla di specifico si rinviene in ordine alla liquidazione degli onorari del giudizio avanti al TAR e al Consiglio di Stato.

     Questo dato va tenuto presente quando andremo ad esaminare la giurisprudenza della Cassazione formatasi in quel periodo.

     La vera novità, vedremo in seguito se può parlarsi di rivoluzione, interviene con l’approvazione del D.M. 5\10\1994 n. 585 e della relativa deliberazione del C.N.F. che innova profondamente i criteri per la determinazione degli onorari, introducendone di specifici per le cause avanti al TAR.

     L’art. 6 risulta ora articolato in 5 commi anziché in due precedenti, dei quali gli ultimi 3 (il 3°, 4° e 5° comma) dettati espressamente per il giudizio amministrativo.

E’ bene riportarli nella completa formulazione:

“3. Nelle cause avanti gli organi di giustizia amministrativa di primo grado, il valore è determinato, quando la controversia concerne diritti soggettivi, secondo i criteri indicati dal comma 1 di questo articolo; negli altri casi, nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, va tenuto conto dell’interesse sostanziale che riceve tutela attraverso la sentenza.

4. Nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, per la determinazione del valore effettivo della controversia, deve aversi riguardo al valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti.

5. Qualora, secondo i criteri di cui ai precedenti commi, il valore della controversia non sia suscettibile di determinazione, si applicano gli onorari minimi previsti per le cause di valore da oltre lire 50 milioni a lire 100 milioni e gli onorari massimi previsti per le cause di valore fino a lire 1 miliardo (tab.A – parag. VI) tenuto conto dell’oggetto e della complessità della controversia, delle questioni trattate e della rilevanza degli effetti di qualunque natura che possano conseguire alla declaratoria della illegittimità dell’atto amministrativo o del comportamento della amministrazione”.

     Dopo 10 anni, come visto, si è giunti alla tabella attualmente in vigore, di cui al D.M. 8\4\2004 n. 127 che ulteriormente modifica l’art. 6, nella parte che ci interessa, disponendo che:

“3. Nelle cause avanti gli organi di giustizia amministrativa, il valore è determinato secondo i criteri indicati dal comma 1° di questo articolo, quando l’oggetto della controversia o la natura del rapporto sostanziale dedotto in giudizio o comunque correlato al provvedimento impugnato ne consentono l’applicazione; ove ciò non sia possibile, nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente va tenuto conto dell’interesse sostanziale che riceve tutela attraverso la sentenza. Per i ricorsi straordinari e gerarchici sono dovuti gli onorari di cui al paragrafo III della tabella A in quanto analogicamente applicabili.

4. Nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, per la determinazione del valore effettivo della controversia, deve aversi riguardo al valore dei diversi interessi perseguiti dalle parti.

5. Per le cause di valore indeterminabile, gli onorari minimi sono quelli previsti per le cause di valore da € 25.900,00 a € 51.700,00 mentre gli onorari massimi sono quelli previsti per le cause di valore da € 51.700,01 a 103.300,00 tenuto conto dell’oggetto e della complessità della controversia; qualora le cause siano di particolare importanza per l’oggetto, per le questioni giuridiche trattate, per la rilevanza degli effetti e dei risultati utili di qualsiasi natura, anche di carattere non patrimoniale, gli onorari possono essere liquidati fino al limite massimo previsto per le cause di valore fino a € 516.500,00.

6. Agli effetti della determinazione del diritto, le cause di valore indeterminabile si considerano di valore eccedente € 25.900,00 ma non € 103.300,00 a seconda dell’entità dell’interesse dedotto in giudizio.

La differenza tra la tabella del 1994 e quella del 2004, è che la prima limitava l’applicazione del comma 1 (la somma domandata o liquidata secondo i criteri dell’art. 10 e ss. cpc) alle sole controversie concernenti i diritti soggettivi, mentre quella in vigore ne amplia teoricamente l’applicazione a tutti i casi in cui l’oggetto della controversia o la natura del rapporto sostanziale ne consentono la applicazione.

     Ho affermato volutamente che si tratta di un ampliamento “teorico” perché, con riferimento all’oggetto del giudizio amministrativo, l’oggetto della controversia molto difficilmente consente, o meglio consentiva, l’applicazione dei criteri “di valore” di cui al codice di procedura civile.

     E questo perché, fino a un periodo relativamente recente (che, per comodità, possiamo far coincidere con la sentenza della S.C. n. 500\99), il giudizio avanti al giudice amministrativo, essendo giudizio di annullamento legato alla tutela di interessi legittimi, era sostanzialmente insuscettibile di una valutazione economica tale da potersi ancorare a criteri di valore determinati e determinabili.

     Dalla (un tempo) ferrea teoria della irrisarcibilità della lesione degli interessi legittimi discendeva evidentemente la sostanziale irrilevanza del profilo patrimoniale della controversia.

Di qui la giurisprudenza pressochè pacifica della Corte di Cassazione, secondo la quale “va considerata di valore indeterminabile la  controversia  dinanzi al  TAR       per l’annullamento di un atto amministrativo in quanto (art. 10 cpc) la causa petendi della domanda è legittimità dell’atto e la sua eliminazione il petitum; per cui l’eventuale indicazione del danno patrimoniale derivato non ha influenza alcuna sulla determinazione del valore della controversia.

     Si tratta di giurisprudenza pacifica di cui richiamo la Cass. Civ. 30\1\1997 n. 932, perché la si trova citata ripetutamente anche dal giudice amministrativo, e Cass. Civ. 19\8\2003 n. 12178 per avere un riferimento più recente (decisioni entrambe della 2^ Sezione).

 

     2. Tutto quanto sin qui esposto è andato bene, e probabilmente continua ad essere attuale, per molte delle materie di competenza del giudice amministrativo, ma risulta evidentemente poco attuale se si tiene conto, come sopra accennato, dell’evoluzione che l’argomento della risarcibilità della lesione di interessi legittimi ha avuto negli ultimi 10 anni.

     Non solo, ma il criterio della indeterminabilità sempre e comunque delle controversie avanti al G.A. risulta incongruo con riferimento ad una specifica materia e cioè alle controversie in materia di appalti, laddove l’oggetto del giudizio sia per esempio il ricorso della seconda classificata nei confronti del provvedimento di aggiudicazione.

     Due fronti, dunque, nei quali viene meno il dogma della indeterminabilità del valore delle controversie instaurate avanti al G.A.:

quello della domanda risarcitoria che può accompagnare la domanda di annullamento del provvedimento amministrativo impugnato;

quello in materia di appalti nel quale il valore della controversia è certamente determinabile in astratto.

Tralascerei il fronte della domanda risarcitoria, che risulta di minor interesse, stante l’incidenza obiettivamente relativa che esso ha nel quadro complessivo di riferimento.

Sicuramente di impatto rilevante, è invece il tema della determinazione del valore della causa quando oggetto della controversia è l’individuazione del contraente privato da parte della P.A.

Va immediatamente rilevato, sul punto specifico della individuazione del “bene della vita” che sottende all’azione giurisdizionale del ricorrente in materia di appalti e di aggiudicazione, che questo non coincide –evidentemente- con la rimozione di un atto illegittimo, ma consiste nel conseguimento dell’aggiudicazione dell’appalto e nella stipula del contratto.

In altre parole, il valore della controversia risulta chiaramente correlato al risultato che l’azione proposta consente di raggiungere, quando dall’accoglimento dell’impugnativa discenda un vincolo per l’amministrazione ad operare nella direzione del pieno ripristino dei diritti patrimoniali del ricorrente, per esempio mediante la stipula con lo stesso del contratto.

E si sottolinea che proprio questo è il punto che ha subito e continua a subire un’evoluzione incessante, nel senso della sempre maggiore estensione del potere del giudice amministrativo di trarre dal giudizio di annullamento le conseguenze relative in ordine alla consequenziale cessazione degli effetti del contratto stipulato tra la P.A. e l’aggiudicatario della gara annullata.

Mi riferisco, naturalmente, all’evoluzione giurisprudenziale che ha portato alla recentissima ordinanza della Corte di Cassazione, SS.UU. Civili, n. 2906 del 10\2\2010 che merita di essere ricordata diffusamente.

Si tratta di un provvedimento che afferma la sussistenza della giurisdizione del G.A. quando, disposto l’annullamento in sede giurisdizionale dell’aggiudicazione, il Giudice si debba occupare della domanda del ricorrente di risarcimento nella forma specifica dell’assegnazione dell’appalto.

Ebbene, la S.C., dopo aver dichiarato sussistere la giurisdizione del G.A., afferma espressamente che detto Giudice può conoscere pure della domanda del contraente pretermesso dal contratto illegittimamente, con privazione di effetti del contratto eventualmente stipulato dall’aggiudicante con il concorrente scelto in modo illegittimo.

Dunque, anche a contratto già stipulato, l’annullamento dell’aggiudicazione può comportare la privazione degli effetti di quel contratto e la stipula di un nuovo contratto con il ricorrente vittorioso.

Ecco dunque che il quadro cui è necessario fare riferimento per valutare i parametri di riferimento della parcellazione può dirsi completato.

Ne scaturisce evidentemente un quadro decisamente innovato, nel quale l’assunto sempre seguito in passato -e fatto proprio dalla giurisprudenza di Cassazione più sopra richiamata secondo cui il giudizio amministrativo, essendo giudizio di annullamento, è sempre di valore indeterminabile- non può essere considerato attuale né costituire il punto di partenza per la valutazione e quantificazione delle prestazioni professionali dell’avvocato amministrativista.

Balza infatti agli occhi, in tutta la sua evidenza, il fatto che alcune controversie quali quelle appena descritte, hanno un valore ben determinabile sia ai sensi dell’art. 10 cpc, sia con riferimento alla natura del rapporto sostanziale dedotto in giudizio e dell’interesse sostanziale che riceve tutela attraverso la sentenza.

 

3. Prima di scendere nel dettaglio della disamina di quale sia il “valore” della controversia in materia di appalti, è opportuno soffermarsi su un ulteriore aspetto generale della problematica connessa alla parcellazione da applicare nelle controversie di natura amministrativa.

Si tratta invero di valutare se i criteri di parcellazione possano variare a seconda di chi sia il soggetto parte in causa, o se invece sia insito nella natura stessa della tariffa professionale il carattere di unicità della prestazione nel singolo processo, naturalmente al fine di individuare il “valore” della controversia.

E’ un tema da affrontare, poiché è nota la tesi che tenderebbe a distinguere i criteri di parcellazione a seconda che il cliente sia il soggetto privato, oppure la P.A. che la gara ha bandito e il contratto ha già o deve ancora sottoscrivere.

Secondo detta tesi, quella appunto della differenziazione a seconda dei soggetti patrocinati, sostanzialmente dovrebbe reputarsi che la P.A. è indifferente all’esito del contenzioso dal punto di vista del “valore” (naturalmente non della legittimità dell’atto). Con la conseguenza che nei suoi confronti la prestazione professionale avrebbe sempre e comunque ad oggetto una questione di valore indeterminabile.

Ebbene, va detto con estrema chiarezza che una siffatta ricostruzione non convince affatto, poiché la natura stessa e la ratio della tabella professionale consiste nel dare uniformità e parametri fissi di riferimento per la quantificazione degli onorari.

D’altro canto, l’atto che viene approvato con D.M. è una delibera del C.N.F. che stabilisce i criteri per la determinazione degli onorari, e questi criteri sono criteri generali per la liquidazione e per la determinazione del valore della causa: in nessuna parte della delibera si trova alcun riferimento alla distinzione tra soggetti patrocinati che possa autorizzare uno scostamento dal criterio di univocità di cui ho sopra parlato.

A corredo di quanto sostenuto –e cioè, si ripete, che il criterio deve essere univoco- può addursi un ulteriore argomentazione che pongo in forma interrogativa, pur essendo implicita la risposta che intendo dare.

Dunque, dal punto di vista dell’impegno richiesto, dell’applicazione e dello studio necessario, dell’attività da svolgere che differenza c’è tra il patrocinare la posizione dell’impresa che contesta l’esito della gara e la P.A. che difende il proprio operato ?

Ancora, dal punto di vista della responsabilità professionale l’errore dell’avvocato dell’impresa pesa di più di quello della P.A. o invece una volta che dell’errore viene chiesto conto al professionista le posizioni tornano ad equivalersi ?

Mi sembra evidente che l’unicità della posizione dei difensori delle parti nello stesso processo, ai fini che qui interessano, debba costituire il postulato da cui muovere per proseguire nella disamina del tema che ci interessa.

Dunque, unicità della posizione dei professionisti ai fini della valutazione delle tariffe applicabili.

 

4. E veniamo così al fulcro della discussione e cioè a quale sia la tabella applicabile, a come si possa in altre parole pervenire alla determinazione del valore della controversia in materia di appalti.

Dico subito che, a mio avviso, si deve sgombrare il campo da una visione “minimalista” del valore della causa, che a tutto vorrebbe ancorare la valutazione fuorché a quello che sembra l’unico dato certo e inconfutabile cui fare riferimento, che è quello del valore del contratto.

Mi rendo ben conto che la visione “minimalista” è diffusa anche tra i nostri stessi Ordini professionali, ma seguendola si finisce con il ridimensionare e diminuire il teorico ammontare delle parcelle dei professionisti impegnati in processi amministrativi aventi ad oggetto gare d’appalto.

Sappiamo tutti benissimo come, specialmente in alcuni settori (senza fare riferimenti, ad esempio la sanità) i valori dei contratti e, prima, dei bandi di gara, siano rilevantissimi, ma trovo che sia una “stortura” del sistema porsi il problema ex ante del possibile ammontare della parcella quando il valore dell’appalto sia ingente.

Per fare un esempio pratico: se un avvocato presta la propria opera per il trasferimento di ramo d’azienda di una grande industria qualcuno ha qualche dubbio che la sua prestazione vada commisurata al valore dell’azienda ceduta e del contratto di cessione e dell’eventuale contenzioso? oppure se un legale cura la cessione di un ingente patrimonio immobiliare e del relativo contenzioso, non è pacifico che il valore della controversia o dell’affare trattato coincide con quello del compendio immobiliare, come determinato ex art. 15 cpc?

Trovo dunque sbagliato che il problema non si ponga per determinate questioni, ma soltanto per altre, tra cui rilevantissime quelle che riguardano direttamente gli avvocati amministrativisti.

Risulta evidente da quanto sin qui esposto che chi scrive propende decisamente per la soluzione che àncora la quantificazione della parcella nel contenzioso in materia di appalto al valore dell’appalto stesso, quale desumibile dal bando e dal contratto.

A tale convincimento si oppongono i rilievi di chi non ritiene che il processo amministrativo possa avere una conclusione pienamente satisfattoria della pretesa della parte, sulla scorta del pieno ed integrale risarcimento in forma specifica che comporti gli effetti della conclusione del contratto o gli altri scopi che la parte si prefigge, al di là del mero annullamento del provvedimento impugnato.

Ma si tratta come visto di rilievi che si fondano su concetti in larga parte superati dall’incalzare delle novità giurisprudenziali prima richiamate.

Peraltro, a fronte della inadeguatezza del riferimento usato in passato al mero valore indeterminabile di qualsiasi azione di annullamento (come già visto) e stante la necessità di ancorarsi ad un criterio che consenta di individuare il valore della controversia, si sono sviluppate diverse tesi, anche nei nostri Consigli degli Ordini del Veneto.

In particolare, sempre con riferimento alle cause in materia di appalto, si è cercato di fare riferimento ad altri criteri, cui pare si attenga la giurisprudenza nel liquidare ad esempio il risarcimento del danno.

Mi riferisco all’utile di impresa, che costituisce certo un riferimento nel valutare l’oggetto e l’ammontare della controversia, ma non può costituire il riferimento cui rapportare l’ammontare della parcella.

E spiego subito il perché.

L’utile che ogni singola impresa ritiene di poter trarre da un determinato lavoro è un dato  variabile, frutto di valutazione dell’imprenditore, il più delle volte sconosciuto ai legali stessi.

Pertanto, la percentuale del 10% utilizzata in sede di quantificazione del risarcimento del danno subito per la mancata aggiudicazione e la illegittima esecuzione delle prestazioni contrattuali da parte di altro soggetto è una percentuale convenzionale, frutto di elaborazione giurisprudenziale comunque legata alla domanda risarcitoria, che nulla rileva ai fini della concreta individuazione del valore della causa.

Ancora diverso, ed ancor meno rispondente ai criteri di parcellazione di cui alla tariffa professionale, risulterebbe ancorare la parcella al mancato utile commisurato all’offerta presentata in sede di gara.

Come già osservato infatti, l’offerta presentata in sede di gara è frutto di variabili e valutazioni che nulla hanno a che vedere con il reale valore dell’appalto.

L’analisi dei prezzi che si sono svolte e si svolgono ai fini della verifica dell’eventuale anomalia dell’offerta hanno dimostrato che il mercato tollera soglie di utile bassissime (la più recente giurisprudenza ha abbassato la soglia dell’anomalia addirittura sotto l’1%).

Ciò significherebbe che per un appalto di servizi per un valore contrattuale stimato di 10 milioni di euro, il valore della pratica commisurato all’utile potrebbe essere di 100 mila euro o anche meno.

Si comprendono immediatamente le conseguenze di un siffatto teorico parametro: la prestazione professionale dell’avvocato verrebbe ad essere parametrata non già al valore del contratto, ma ad un valore, questo sì indeterminabile a priori ed incerto, legato all’offerta e all’analisi di variabili d’impresa per lo più sconosciute ma comunque certo non corrispondenti “alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata” cui si riferisce l’art. 6, 1 comma, della tariffa forense.

In sostanza, se si ritiene, come sostenuto più sopra, che nel giudizio amministrativo in materia di appalti può ben farsi riferimento all’art. 10 del cpc, in quanto l’oggetto della controversia ne consente l’applicazione, allora non potrà che concludersi che il valore della controversia è quello del contratto tutte le volte in cui il risarcimento in forma specifica costituisca il fine ultimo dell’impugnativa.

Una siffatta soluzione è, in virtù del criterio di unicità della valutazione della prestazione professionale nel processo cui si è sopra detto, idonea ad essere applicata ai difensori di tutte le parti processuali.

Ciò non impedisce, peraltro, alla P.A. (ma anche al privato) che voglia diversamente disciplinare il conferimento dell’incarico professionale, di pattuire diversi criteri di pagamento, concordandoli preventivamente con i legali esterni cui intende conferire l’incarico.

E ciò tanto più oggi, in un momento in cui, dopo la presa di posizione della Corte dei Conti veneta (della quale certo non si sentiva il bisogno), gli incarichi degli Enti pubblici andrebbero attribuiti previa selezione.

 

5. In conclusione, mi pare utile riassumere in poche parole il quadro delineato.

Le cause davanti agli organi di giustizia amministrativa possono avere ad oggetto le materie più disparate, per alcune delle quali l’indeterminabilità del valore è effettivamente, tuttora, il criterio cui si deve fare necessariamente riferimento.

Per fare qualche esempio, l’urbanistica - edilizia con le impugnazioni di P.R.G., P.d.C. ecc. in ordine alle quali la originaria valutazione della indeterminabilità del valore del giudizio di annullamento del provvedimento illegittimo è ancora attuale ed insuperabile.

Una prima differenziazione va peraltro richiamata, come già ricordato, quando al giudizio di annullamento, si affianchi una domanda risarcitoria. Il risarcimento del danno per la lesione di un interesse legittimo era qualche cosa di nuovo e rivoluzionario quando sono stati approvati i vigenti criteri per la determinazione degli onorari, ma non c’è dubbio che in ordine alle relative controversie sia ben individuabile “la somma attribuita alla parte vincitrice” o “l’interesse sostanziale che riceve tutela con la sentenza”.

Infine, un capitolo a sé richiede la causa in materia di appalti, ed è un capitolo sul quale mi sono lungamente soffermato.

Mi piace concludere questo breve excursus richiamando una decisione del Consiglio di Stato che mi è stata molto utile per lo sviluppo del ragionamento.

Avevo iniziato scrivendo che il tema era arido e la giurisprudenza poca o comunque ripetitiva di vecchie posizioni, non in linea con le novità che in questo decennio hanno caratterizzato il processo amministrativo e il suo oggetto sostanziale.

Bene, il Consiglio di Stato, nella decisione n. 5751 del 7\11\2007 della Sez. V, ha perfettamente colto l’esigenza che

“il dato normativo offerto dalla vigente tariffa professionale … meriterebbe di essere adeguato alla profonda evoluzione del diritto amministrativo sostanziale e processuale …”.

Infatti, per il Consiglio di Stato la vecchia tesi della irrilevanza del profilo patrimoniale della controversia nel processo amministrativo risulta superata “… quando sia effettivamente proposta una domanda risarcitoria, che consentirebbe un’adeguata misurazione economica della controversia …”.

Si dice ancora nella citata decisione:

“La tradizionale configurazione “strumentale” rispetto alla protezione del bene della vita toccato dall’esercizio del potere amministrativo ha spesso portato ad affermare che l’oggetto del giudizio ordinario di legittimità vada individuato nel mero petitum di annullamento del provvedimento, insuscettibile, come tale, di presentare un valore economico predeterminato, idoneo a costituire la base di un calcolo per la liquidazione degli onorari del difensore …

[Ma] la previsione espressa dell’articolo 6 induce a ritenere che debba essere valutata sempre, in concreto, la tutela derivante dalla sentenza che definisce la controversia.

Questa indicazione della tariffa professionale impone di non limitarsi alla considerazione del petitum formale di annullamento, che costituisce il mezzo attraverso cui l’interessato può far valere interessi sostanziali spesso assai differenziati ed eterogenei … [Ma] occorre verificare se il petitum di annullamento si colleghi, o meno, a un interesse patrimoniale e se esso sia “misurabile” in modo attendibile …

Il valore economico della controversia [viene in immediata considerazione] quando la tutela dell’interesse sia affidata alla deduzione di motivi di ricorso che, in caso di accoglimento, vincolano l’amministrazione ad operare, univocamente, nella direzione del pieno ripristino dei diritti patrimoniali illegittimamente compressi.

 
< Prec.   Pros. >
Contenuti Multimediali
Associazione Avvocati Amministrativisti del Veneto tutti i diritti riservati