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La Legge n. 231/2001: responsabilità delle società pubbliche per i reati dei propri amministratori PDF Stampa E-mail
mercoledì 16 marzo 2011
sintesi del Seminario svoltosi il 26 febbraio 2011, a cura di ROCCO GIACOBBE VACCARI

La tematica relativa alla possibilità di individuare, anche nelle persone giuridiche, una responsabilità diretta dell'Ente ha visto nel corso dei secoli un ampio dibattito dottrinale (che si è snodato principalmente tra il diritto romano, il diritto canonico e la dottrina tedesca, per arenarsi poi qui in Italia con i dogmi dell'art. 27 della Costituzione), che ha ora trovato un certo superamento, grazie a spinte da parte del diritto comunitario ed internazionale, con l'emanazione da parte del Governo del Decreto Legislativo n. 231/2001, sulla scorta della legge di delega n. 300/2000.

La “responsabilità 231” delle imprese è tecnicamente una responsabilità amministrativa, ma simbioticamente intrecciata alla responsabilità penale degli autori dei reati previsti dalla norma.

La natura amministrativa della responsabilità dell'Ente è quindi autonoma, e tale carattere si può evincere nella struttura sanzionatoria e nella generale prescrizione quinquiennale (artt. 8, 9-18, e 22 D.Lgs n. 231/2001).

Tutto il resto della struttura della legge ha un'indubbia natura penalistica (artt. 26, 34, 35, 36, 40 e 57, D.Lgs n. 231/2001): si veda ad esempio, l'applicabilità del codice di procedura penale e certi principi prettamente penalistici quali quelli sanciti dall’art. 1 e 2 del c.p., la competenza del giudice penale, l'assunzione da parte dell'impresa dello status di imputato e la nomina del difensore d'ufficio, la previsione dell'anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato.

Per inquadrare la tipologia di “responsabilità 231” si potrebbe dire che il legislatore ha coniato un nuovo schema di responsabilità penale (a dire il vero, si rileva come il nostro ordinamento giuridico conoscesse già prima del 2001 delle ipotesi di responsabilità delle persone giuridiche: l'art. 197 c.p., l'art. 6 ex L. n. 689/1981, la L. n. 223/1990, la L. n. 344/1933 e la L. n. 86/1994).

Il legislatore ha definito il perimetro dei soggetti destinatari della norma, chiarendo i confini di inclusione e di esclusione dall'applicabilità della Legge (art. 1 e 27, D.Lgs. n. 231/2001).

La “responsabilità 231” si applica: - agli enti forniti di personalità giuridica (società di capitali e cooperative, fondazioni e associazioni riconosciute, enti pubblici economici); - alle società e alle associazioni anche prive di responsabilità giuridica (società di persone, consorzi, associazioni non riconosciute).

La “responsabilità 231” non si applica: - allo Stato; - agli enti territoriali (Regioni, Province, Comuni); - agli enti e soggetti di rilievo costituzionale (partiti politici, sindacati, rami del Parlamento, Consulta, C.s.m.).

Secondo la giurisprudenza della Cassazione, sono soggette al D.Lgs. n. 231/2001 tutte le società degli enti pubblici che svolgono attività economiche (come tutte le società di capitali). Quindi tutte le società che gestiscono attività sanitaria (vedi Cassazione penale, sentenza n. 28699/2010), ex municipalizzate (oggi Ato) che gestiscono igiene pubblica, rifiuti, ambiente, diritto all’informazione e alla sicurezza antinfortunistica, igiene del lavoro, tutela del patrimonio storico e artistico, istruzione e ricerca scientifica.

Sfuggono all’applicazione della “responsabilità 231” solo gli enti pubblici territoriali, quelli non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale, come quelle legate al diritto alla salute e all’ambiente (ma non le loro società commerciali).

Presupposti per l’applicazione del Decreto legislativo in esame sono:

a) il legame funzionale tra l’ente e gli autori del reato, nel senso che questi ultimi devono essere soggetti che agiscono per conto del primo, quindi i suoi dipendenti o consulenti. Vi sono due categorie di soggetti qualificati: 1) i vertici aziendali, membri di organi rappresentativi, o agenti di fatto ossia i soggetti c. d. apicali e 2) i soggetti sottoposti alle direttive ed al controllo dei primi.

Tali soggetti qualificati altresì, per concretizzare una responsabilità diretta dell’azienda, devono commettere reati dalla realizzazione dei quali l’ente ricavi un proprio tornaconto.

La “responsabilità 231” è diretta, in quanto presuppone uno specifico collegamento tra reato ed ente espresso dal tornaconto aziendale (si vedano artt. da 5 a 7, D.Lgs n. 231/2001 e 2049 c.c.), ed è composta da tre elementi: rapporto organico, tornaconto aziendale e colpa in organizzazione.

b) l’interesse o vantaggio dell’impresa nella commissione del reato. L'interesse è un elemento soggettivo che si accerta verificando se all'atto del compimento dell'illecito la persona fisica avesse la convinzione di beneficiare l'ente e tale azione risultava conforme alla politica d'impresa, perciò in qualche modo connivente. Il vantaggio è un elemento oggettivo consistente nella constatazione di un beneficio per l'azienda conseguente dall'illecito, da valutare a reato avvenuto (chiarificatrice anche su tale punto è una sentenza del Tribunale Trani, Sez. di Molfetta, depositata l'11.01.2010 relativa alla tragedia della Truck Center di Molfetta).

Altresì, se il reato è commesso da un organo al vertice aziendale, la responsabilità dell'impresa si presume se concorrono i seguenti elementi: commissione di uno dei reati presupposto, reato commesso da un vertice apicale, tornaconto aziendale.

c) l’assenza di un adeguato modello organizzativo volto a prevenire i reati commessi. Si tratta di un elemento facoltativo in quanto non è imposto dal Legislatore ma costituisce un rimedio per prevenire la “responsabilità 231” per le aziende. Un modello organizzativo adeguatamente strutturato per prevenire i c.d. “reati presupposto” che sia efficace ed efficiente è in grado di escludere la responsabilità dell'azienda ovvero di contenerne le conseguenze sanzionatorie.

Un caso di una società salvata dall'adozione di un modello organizzativo è quello deciso dal GIP del Tribunale di Milano il 17.11.2009 che nonostante fosse accertato il reato di aggiottaggio informativo, ha negato la “responsabilità 231” dell'ente perché esso aveva inserito specifiche misure organizzative sin dal 2003 (in sostanza, un esempio di diritto penale premiale).

Nel corso della sua vigenza, il legislatore, visti i buoni risultati, ha inserito nel corpo del D.Lgs. n. 231/2001 sempre nuove ipotesi di reato ( i cd. reati presupposto) che fanno scattare la “responsabilità 231” dell'impresa, e l'indirizzo pare quello di ampliare ulteriormente il novero di tali illeciti aggiungendone altri, ad es. quelli in materia ambientale.

Lo scenario sino ad ora delineato potrebbe essere modificato con l'approvazione del disegno di legge di riforma che prevede come modifiche precipue: l'inversione dell'onere della prova dall'impresa al P.M. e il sistema di certificazione dell'idoneità dei modelli a prevenire i reati.

Anche per la possibilità o meno della costituzione di parte civile nei processi per accertare la responsabilità delle società si auspica un intervento del legislatore, visto le oscillazioni giurisprudenziali - che parevano aver trovato fine con la sentenza della Cassazione n. 2251/2011 (che ne negava la possibilità) - e la recente decisione del GUP del Tribunale di Firenze che ha rinviato alla Corte di giustizia europea la verifica sulla compatibilità tra la disciplina del decreto 231/2001 in materia di costituzione di parte civile, dopo recenti pronunce che l'avevano in larga parte esclusa, e la normativa comunitaria a tutela delle vittime di reato.

Infine è da rilevare come il D.Lgs 231/2001 abbia vari punti di contatto con altri importanti sistemi normativi - l'intreccio è facilitato dalla possibilità, come rilevato sopra, di aumentare il catalogo dei reati presupposto di “responsabilità 231” – tra cui ricordiamo: il testo unico in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, la disciplina antiriciclaggio e la normativa sulla privacy.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Ultimo aggiornamento ( giovedì 17 marzo 2011 )
 
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