di FRANCESCO VOLPE Il testo riproduce il contenuto di un breve intervento che verrà tenuto il 6 maggio 2011 a Reggio Calabria 1. Lo studio e la classificazione delle situazioni giuridiche soggettive appartengono, come ben si sa, alla teoria generale del diritto.
Tuttavia, non tutte le nozioni di teoria generale del diritto, per quanto strano possa sembrare, sono assolute; tali cioè da applicarsi in ogni tempo, in ogni luogo e in ogni ordinamento.
Fatti salvi alcuni concetti ineliminabili, come quello di norma e di sanzione, altri sono relativi al tipo di sistema giuridico adottato. Le situazioni giuridiche soggettive appartengono a questa seconda categoria.
Prova ne sia che la loro individuazione è cosa, tutto sommato, piuttosto recente.
Esse sono emerse al culmine di una evoluzione che è nata dalle ceneri dello ius commune ed è culminata con la pandettistica tedesca, a cui si deve, soprattutto, la prima elaborazione del concetto di diritto soggettivo.
Il che non è, forse, casuale: dalla frammentazione degli ordinamenti e dalla concretizzazione dell'idea moderna di Stato sono seguiti ordines iudiciarium essi stessi distinti, ciascuno dotato delle proprie caratteristiche.
È risultato, così, sempre più difficile collegare l'attuazione del diritto al mero esperimento dell'azione (o meglio, della romanistica actio), mentre l'emersione di vari sistemi di diritto processuale, da intendersi come entità nettamente distinte da quelle di diritto sostanziale, ha portato, insieme al concetto di giudicato, alla necessità di individuare su che cosa il giudice debba concentrarsi e su che cosa il giudice debba fondare il proprio accertamento.
La sentenza, si dice, è attuazione della legge per il caso concreto. È sembrato, d'altra parte, che tale attuazione non potesse più essere affermata, dal giudice, nell'enunciato della legge stessa ("tibi dabo ius"). L'accertamento doveva concentrarsi, invece, su un elemento più sintetico, ostendibile e, entro certi limiti, opponibile ai terzi, nonché suscettibile di valutazione oggettiva esso stesso.
Tale elemento venne così ravvisato nel diritto soggettivo, primigenia di tutte le situazioni giuridiche soggettive; il giudice che lo accertava attribuiva alla parte vittoriosa nella lite una entità, immateriale quanto si vuole, ma oggettivizzata.
Si è detto, da parte di Romano Tassone, che il concetto di situazione giuridica soggettiva è strettamente collegata a quello di soggettività giuridica. Il che è vero. Ed è vero anche perché l'insieme delle situazioni giuridiche soggettive attribuite ad un dato centro di imputazione concorrono a identificare quel concetto che significativamente è definito come "patrimonio giuridico": un bene che appartiene ad una determinata persona e che di cui ella può disporre. Tale bene, tuttavia, è la legge, quale risulta, nei suoi riguardi, attuata e di cui egli è, in certo senso, titolare, attraverso la titolarità delle varie situazioni giuridiche soggettive e del diritto in particolare.
2. La titolarità di una situazione giuridica, dunque, è, in un certo senso, titolarità della legge così come quest'ultima viene attuata nei riguardi di un determinato individuo (uso volutamente questa parola giuridicamente equivoca; meno equivoca sotto un profilo filosofico) e, in quanto tale, oggetto di un potenziale accertamento giudiziale.
Da ciò si ricava quale sia la funzione cui assolve, nella moderna teoria generale, la situazione giuridica stessa. Essendo forma sintetica dell'attuazione della legge, la situazione giuridica soggettiva si risolve in uno strumento di valutazione. Essa è l'elemento con il quale si permette di valutare determinate circostanze in relazione alla legge, sì da ipotizzarsi le collegate conseguenze, di apprezzamento, di tutela o sanzionatorie.
Le circostanze oggetto di valutazione, a loro volta, sono necessariamente circostanze riferibili (ancora una volta il termine è "pre-giuridico") all'individuo, perché è nei riguardi dell'individuo che, in definitiva, la legge deve trovare attuazione. Ma esse possono avere un oggetto plurimo, consistente ora in comportamenti, ora in fatti storici, con cui l'individuo (che ora possiamo definire più propriamente come "soggetto") viene in contatto.
La situazione giuridica soggettiva, dunque, è uno strumento giuridico di valutazione di comportamenti o di fatti e la sua titolarità può essere diretta o indiretta, secondo che essa abbia ad oggetto gli uni o gli altri.
3. Stabilite queste premesse, qui, ne sono consapevole, indimostrate (ma lo spazio concessomi non mi permette di approfondire), si tratta ora di spostarci nei territori propri di noi amministrativisti e capire se il concetto in esame abbia per noi una particolare importanza.
La risposta affermativa, alla domanda, è scontata; eppure, la domanda doveva essere ugualmente posta, per il fatto che, nel sistema italiano, le situazioni giuridiche soggettive sono state utilizzate, prima dalla tradizione dogmatica, poi dal concordato Romano-d'Amelio e, infine, dalla stessa Costituzione, anche per uno scopo ulteriore ed estraneo, rispetto a quello per cui il concetto di teoria generale è stato fondato.
Aver appoggiato il fondamento del criterio di riparto tra le giurisdizioni sul concetto di interesse legittimo ha, infatti, causato conseguenze che hanno finito per inquinare lo strumento concettuale dato dalle situazioni giuridiche soggettive, piegandolo a finalità per le quali esso, originariamente, non era previsto.
Ciò è stato causa di grave confusione concettuale, che, per di più, è risultata aggravata da altre emergenze.
In modo inconsapevole, infatti, è avvenuto (a mio modo di vedere) che, nell'elaborazione, anziché muovere dai concetti di diritto soggettivo e di interesse legittimo per spiegare quando la controversia fosse deputata all'uno o all'altro giudice, si sia partiti, invece, da un preconcetto limite tra le giurisdizioni, costruito sul potere di annullamento così come collegato alla lesione diretta e personale di un interesse privato sostanziale, per ridefinire le situazioni giuridiche stesse. Nella giurisprudenza formatasi dopo il concordato e sino all'affermarsi delle prime sentenze sul giudizio amministrativo come giudizio di carattere soggettivo, l'interesse legittimo era la situazione giuridica azionabile quando il provvedimento causava una lesione diretta agli interessi sostanziali del privato. In tal modo, si è proceduto in modo inverso a ciò che la logica avrebbe richiesto, una volta stabilito il ricordato criterio di riparto. Si è arrivati, così, ad una definizione di interesse legittimo che si è rivelata strumentale all'azione e che era insuscettibile di rappresentazione sotto il suo stretto profilo contenutistico e sostanziale.
Quando poi si è affermato -- io ci credo assai poco, ma occorre pur tenere conto dell'effettività giurisprudenziale -- che il contenuto dell'accertamento giudiziale amministrativo non è un fatto (l'illegittimità del provvedimento o, più in generale, la violazione della disciplina d'azione), ma che esso è l'interesse legittimo stesso, ormai il processo di indeterminatezza di quest'ultimo era già assai avanzato.
Le nuove istanze di tutela non avrebbero fatto altro che piegare ancora di più la nozione, sino a renderla del tutto evanescente. Sicché, se negli anni '70 si organizzavano convegni per chiedersi che cosa mai fosse questo interesse legittimo e se, negli anni '80 e '90, Ledda propendeva per ritenerlo un flogisto, ancor oggi possiamo dire di avere le idee quanto mai incerte circa la sua essenza.
Cosicché l'incertezza generale rende lecito far rientrare o escludere dall'interesse legittimo tutto ciò che, nel caso contingente, conviene o non conviene. Spesso, infatti, il contenuto dell'interesse legittimo, negli studi e nelle sentenze, viene definito in ragione delle conseguenze che si vogliono raggiungere e delle istanze che si vogliono soddisfare. Si tratta di istanze che talora non sono prive di un fondamento di diritto positivo, per lo più ravvisato negli artt. 24 e 113 della Costituzione; in altri casi, tuttavia, esse appaiono fondate su semplici vagues interpretative (alcuni dei nostri Colleghi, soprattutto quelli meno giovani, citavano Piras ad ogni piè sospinto; ma ho l'impressione che quella sua monografia sia stata effettivamente letta non da molti, perché a quel Maestro venivano talvolta messe in bocca parole che lui non aveva affatto pronunciato o che aveva pronunciato con ben altro significato). Ma il dubbio che si proceda, in ogni caso, a consequentiariis non è tenue.
4. Beninteso, il clima d'incertezza non è stato solo figlio del riparto di giurisdizione, ma anche di altri fattori concomitanti.
Lì passerò, assai brevemente, in rassegna.
In primo luogo, vi furono alcune concordanze storiche. La legge Crispi del 1889 venne promulgata quando, in Germania, l'elaborazione del concetto di diritto soggettivo, inizialmente nato come espressione della "signoria del volere", era ancora embrionale. Su queste embrionali basi, venne tuttavia stabilito il concordato.
In secondo luogo, va tenuto conto del progressivo passaggio, in quegli anni, dallo Stato liberale e di diritto allo Stato sociale. Con l'assunzione di nuovi compiti, la compagine statale intensificò il controllo sui privati, stabilendo nuovi divieti generali e ampliando il novero dei provvedimenti atti a derogare, nei riguardi nei singoli, siffatti divieti. Si trattava di provvedimenti costitutivi di posizioni di libertà ex ante limitate dalla legge e, all'uopo, si sarebbe dovuto dire che si trattava di provvedimenti costitutivi di diritti. Ma affermare che vi fosse un provvedimento costitutivo di diritti significava ammettere che, prima del provvedimento, quel diritto non spettava al privato. Il che appariva, verosimilmente, inconcepibile ad una impostazione ideologica che affondava le proprie radici nella teoria dei "diritti pubblici subiettivi" e nel riconoscimento che l'individuo è titolare della massima forma di libertà possibile anche nei confronti dello Stato. Probabilmente, perciò, fu questa l'emergenza che portò alla ben nota distinzione tra titolarità ed esercitabilità di una data situazione giuridica soggettiva e che involse il secondo, grande, campo di interesse della materia delle situazioni giuridiche soggettive, per l'amministrativista. Vale a dire, il distinguere i provvedimenti tra loro sulla base degli effetti che producono.
In terzo luogo, al clima di incertezza contribuì, probabilmente, anche un approccio degli studi amministrativistico infine meno dogmatico (in consonanza, peraltro, a quanto avvenne anche per le altre discipline giuridiche). Le scuole di pensiero che si appoggiarono ora sul concetto di funzione, ora su quello di organizzazione, per spiegare i vari fenomeni del diritto amministrativo, portarono indubbiamente a risultati assai fecondi. Ma le medesime teorie furono, se la parafrasi dell'inno alla Vergine non sembrasse blasfema, madri e figlie di quell'incertezza sistematica.
Ciò non toglie che si affermarono ugualmente alcuni brillanti tentativi di classificazione delle situazioni giuridiche soggettive, a tutti noi ben noti e non necessariamente desumibili dagli studi dei processualpenalisti e dai processualcivilisti. Se, perciò, nel secondo dopo guerra, i contributi di Allorio, di Attardi, di Cordero, furono innegabili, non meno rilevanti furono quelli di Cassarino e di Guarino e, se volete, del mio maestro.
Ma non bastarono.
Le conseguenze applicative di tale asistematicità sono, oggi, sotto gli occhi di tutti.
Esse non vanno limitate al solo campo della tutela giurisdizionale e, quindi, ai problemi dei limiti di ammissibilità della giurisdizione esclusiva, della c.d. pregiudiziale (vera o dissimulata dall'art. 1227 cod. civ.), della nozione di giudicato amministrativo e dell'ammissibilità delle azioni di accertamento e di condanna.
Tali conseguenze si riscontrano anche nella disciplina sostanziale, innanzitutto secondo il profilo della risarcibilità dell'interesse e, in particolare, del tipo di illecito (o di indennizzo? o di pena privata?) che esso sottintende.
Le medesime conseguenze, però, si ravvisano anche secondo quello che attiene alla regolamentazione dei diritti dei privati. Se la tesi sulla degradazione dei diritti sembra oggi suscitare meno apprezzamento che in passato, non possiamo, tuttavia, scordare che è sull'equivoca nozione di ius aedificandi, siccome ontologicamente compreso nel concetto di proprietà, che si fondano gli assai fragili pilastri del diritto dell'edilizia. Ed invero a me pare ancor oggi opinabile affermare che il proprietario è titolare del diritto di costruire, ma che, se egli costruisce in assenza del necessario permesso, viene sanzionato. Per lo meno, mi sono sempre guardato dal sostenere apertamente questa tesi nei colloqui professionali che intrattengo con i miei clienti chiamati a rispondere dell'eventuale abuso edilizio.
Non meno incerta, sempre limitandomi ad un profilo puramente esemplificativo, è la teoria sui vincoli conformativi della proprietà stessa, che in taluni casi la limiterebbero, senza tuttavia costituire vincolo espropriativo.
E, per avvicinarmi a temi assai più recenti, è conseguenza anche della rassegnata incertezza sui concetti pertinenti alle varie situazioni giuridiche soggettive quel che di recente la Cassazione è venuta sostenendo in materia di demanialità. Delle tre sentenze delle sezioni unite, rese nel febbraio di quest'anno, non è sorprendente solo l'affermata non tassatività dei beni demaniali, ma anche la tesi secondo cui un bene può essere, nello stesso tempo, privato e in toto anche demaniale.
5. Alla luce di queste considerazioni, io ritengo che una rinnovata ricerca, ispirata a criteri più dogmatici, sulla classificazione e sull'identità delle situazioni giuridiche soggettive sia oggi quanto mai utile; come, in generale, è forse utile un, almeno parziale, ritorno alla dogmatica.
In questa occasione, non vi è il tempo e l'opportunità per dare una risposta alle domande su cosa sia un diritto soggettivo, cosa un interesse legittimo, cosa uno status e cosa un potere libero.
Sul punto, per la verità, ho le mie idee e, se è consentito il rinvio, in parte le ho anche già esposte in un mio scritto. Esse si poggiano sull'adesione ad una particolare configurazione della struttura ipotetica della norma e stabiliscono la classificazione delle figure giuridiche soggettive, secondo che esse vengano prodotte dalla norma ora nella sua efficacia presupposta (o di mera rilevanza giuridica), ora nella sua efficacia consequenziale (che, a ben vedere, è essa stessa efficacia di rilevanza, rispetto ad altra norma; ma qui mi fermo, perché la divagazione sarebbe davvero, altrimenti, eccessiva).
Non pretendo, d'altra parte, di imporre le mie tesi a nessuno.
Qui mi limiterò, perciò, a fornire una traccia del modo con cui questa nuova ricerca deve, a mio avviso, svolgersi e salvo, ovviamente, che altri non individui percorsi migliori e maggiormente convincenti.
Innanzitutto, nel tentativo di impostare una classificazione, credo che si debba liberare le situazioni giuridiche soggettive da ciò che a loro non pertengono. Esse, pertanto, vanno considerate in modo indipendente dai problemi di riparto e vanno ricondotte alla loro essenzialità di strumenti di valutazione di fatti o di comportamenti. Suggerisco, pertanto, che le varie situazioni giuridiche soggettive debbano essere distinte tra loro, essenzialmente, sulla base del diverso oggetto della valutazione che le medesime esprimono.
In secondo luogo, poiché i fatti e i comportamenti valutabili sono predeterminati nel loro genere, anche le situazioni giuridiche soggettive in un certo senso lo sono. Di più, si può affermare che le stesse, in un certo senso, distribuiscono tra sé quei fatti e quei comportamenti che quindi valuteranno. Con la conseguenza che -- quando una di quelle medesime circostanze venga sottratta dall'oggetto di valutazione reso da una situazione giuridica soggettiva o, viceversa, venga nello stesso attratta -- non risulterà modificata solo quella particolare situazione giuridica soggettiva, ma, per risulta, ne usciranno modificate anche le restanti o, quanto meno, quelle contermini. In altre parole, l'esame di una data situazione giuridica soggettiva non può essere condotto come se la stessa fosse una monade, ma deve progredire tenendo conto dei reciproci confini concettuali tra una situazione giuridica soggettiva e l'altra.
In terzo luogo, nell'esame e nella distinzione delle varie situazioni giuridiche soggettive non si deve, a mio modo di vedere, tenere conto di fattori esogeni che sono tali da rendere meno limpido l'oggetto della valutazione espressa.
Tali fattori esogeni ricorrono spesso, nelle trattazioni e nelle sentenze dei giudici; tuttavia essi sono ingannatori, tanto che, spesso, possono essere riferiti, indifferentemente, all'uno o all'altro tipo di situazione giuridica soggettiva. A mio parere questi criteri esogeni sono essenzialmente quello dell'interesse sostanziale tutelato dalla situazione giuridica soggettiva, quello relativo ai poteri di tutela giurisdizionale, quello dei poteri di disposizione della situazione giuridica soggettiva e quello della sua eventuale esclusività.
Secondo la mia idea, infatti, una data situazione giuridica soggettiva non può essere identificata con l'interesse che essa protegge, come pure sottintendono quelle tesi che identificano il diritto soggettivo come un bene della vita giuridicamente protetto. Ciò sostengo, in primo luogo, perché detto interesse è, in realtà, una entità pregiuridica. Proprio perché la situazione giuridica soggettiva è volta alla protezione di un interesse, quest'ultimo la precede sotto il profilo logico, di modo ché identificare le due entità (l'interesse e la situazione) porta a confondere la causa con l'effetto.
L'ipotizzato vizio logico, insito nella accennata identificazione, conduce a incongruenze applicative. Per un verso, infatti, è innegabile che ogni situazione giuridica soggettiva protegge un interesse: perché la legge in essa concretamente attuata è, in sé, posta a protezione di interessi. Quindi, non solo sono posti a protezione di interessi i diritti soggettivi e gli interessi legittimi ma, a ben vedere, anche le situazioni di doverosità. Né è sostenibile che i doveri, a differenza dei diritti, proteggano sempre interessi altrui, perché proprio il concetto di funzione amministrativa insegna che si può essere titolari di doveri posti a tutela di interessi e fini che sono affidati ai loro stessi titolari. Per altro verso, se le situazioni giuridiche soggettive coincidessero con l'interesse protetto, sarebbe innegabile che situazioni giuridiche, pur postulate diverse, tutelino il medesimo interesse. A ben vedere, l'interesse dell'espropriato ad opporsi all'espropriazione, tutelato con l'interesse legittimo, è lo stesso interesse del proprietario a pieno titolo: esso è l'interesse di godere o di tornare a godere della cosa. In sunto, l'identificazione della situazione giuridica con l'interesse rischia, a mio modo di vedere, di impedire una reale distinzione tra le varie situazioni giuridiche soggettive stesse.
Detto rischio non è meno presente in chi identifica le situazioni giuridiche soggettive con i mezzi di protezione loro accordati. A ben vedere, i rimedi che l'ordinamento offre sono anch'essi estranei al concetto di situazione giuridica soggettiva. Questa volta non perché la precedono, ma perché la seguono. Prova ne sia che -- sebbene non sia affatto detto che a tutte le situazioni giuridiche soggettive debbano essere riconosciuti tutti i potenziali rimedi giuridici previsti dall'ordinamento -- ancora una volta a situazioni giuridiche soggettive diverse possono, talora, essere riconosciuti i medesimi rimedi. Se già è facile constatare che l'azione confessoria è comune a tutti i diritti reali limitati e che l'azione possessoria è comune sia a chi è titolare del possesso sia a chi è titolare della mera detenzione, l'esempio più significativo in tal senso è dato proprio dalla sentenza n. 500/99, con cui la Cassazione ha ammesso la risarcibilità non solo dei diritti soggettivi (assoluti e relativi) e degli interessi legittimi, ma di qualsiasi situazione giuridica soggettiva. Chances e aspettative incluse.
Estranei alle situazioni giuridiche soggettive mi sembrano essere, poi, i poteri di disposizione delle stesse. Non è elemento essenziale del diritto soggettivo il fatto che esso possa essere alienato, ma è solo un suo elemento naturale (per di più separato e dipendente), perché esistono i diritti indisponibili e perché, talora, può disporre del diritto anche chi non ne è titolare. Così agisce, infatti, il rappresentante, ma, a ben vedere, anche l'autorità amministrativa, quando essa sopprime il medesimo diritto o lo trasferisce da un cittadino ad altro.
Il problema della estraneità alla situazione giuridica soggettiva dei poteri di reazione giurisdizionale e dei poteri di disposizione introduce l'ultimo fattore esogeno, che è dato dalla eventuale esclusività della situazione giuridica soggettiva stessa.
Quest'ultimo argomento è strettamente collegato alla tesi di Allara sul diritto come fascio di obbligazioni e, a ben vedere, esso spinge i propri rami fino a toccare le tesi di Allorio che risolveva ogni problema, nella materia, in termini di situazioni di doverosità. Il fascio di obbligazioni, che gravano su tutti i soggetti terzi rispetto al titolare della situazione giuridica soggettiva stessa, non è, però, idoneo a descrivere quest'ultima, ma solo a descrivere il dovere dei terzi di astenersi dal turbarla. Poiché, tuttavia, il contenuto di detto dovere dipende dal contenuto della situazione tutelata, è evidente come anche ogni fascio di obbligazioni si distingua dall'altro sulla base della situazione che non deve essere turbata, perché è essa che delimita il contenuto dell'obbligo di astensione.
6. Mi avvio alla conclusione di questa rassegna metodologica (e del mio intervento) toccando, sia pure disorganicamente, quattro ulteriori punti, pure connessi allo scopo classificatorio assunto.
Il primo attiene alla opportunità -- ripeto, secondo il mio modo di pensare -- di rivedere la distinzione tra titolarità ed esercitabilità. La distinzione va sottoposta ad analisi critica non solo perché potenziale causa di incongruenze all'atto pratico, ma anche perché essa si espone alla critica di Ockham, utilizzando due distinti criteri, quelli appunto di titolarità ed esercitabilità, per spiegare la medesima cosa. Vale a dire se un determinato comportamento sia lecito o no. Con la conseguenza che, ove i due criteri conducano a conclusioni diverse, non si saprebbe più in che modo qualificare il comportamento medesimo.
Il secondo attiene alla nozione di rapporto giuridico. Esprimendoci in termini filosofici, esso è una sorta di metaconcetto, perché è costruito sulla base di già individuati concetti (quelli relative alle varie situazioni giuridiche) che vengono posti in relazione tra di loro. Si tratta, però, di un concetto piuttosto evanescente. Se esso è utilizzato per spiegare i confini posti tra le situazioni giuridiche tra loro relazionate, il concetto di rapporto giuridico è forse inutile, perché detti confini non sono stabiliti da una sorta di respingenza che le due situazioni manifesterebbero, ma dalla loro connaturata e singolare descrizione. Ma ugualmente inutile, perché riassuntivo delle situazioni relazionate, si dimostra essere, detto concetto, se pure esso fosse utilizzato per descrivere unitariamente le situazioni stesse. In definitiva, come ricordato in apertura, le situazioni giuridiche soggettive sono legate al concetto di soggettività giuridica, di cui regolano i comportamenti e i fatti circostanti. E, sebbene i soggetti del diritto agiscano indiscutibilmente in rapporto con gli altri, essi vengono valutati dal diritto nell'individualità del loro comportamento.
Il terzo e il quarto punto attengono a due figure giuridiche particolari, sulle quali mi si consentirà di dire poche, e sommarie, parole. Innanzitutto, richiamerò l'attenzione sul concetto di potere, per segnalare che esso -- come in passato è stato sostenuto -- situazione giuridica soggettiva probabilmente non è, costituendone invece il possibile contenuto, se per potere, naturalmente, intendiamo la capacità di porre in essere un atto giuridico. Sicché possiamo avere poteri liberi e poteri doverosi, contenuti in situazioni giuridiche diverse perché diverso è il modo con cui l'ordinamento valuta il loro esercizio, eventualmente sanzionandolo con l'annullabilità l'inefficacia, la nullità o il risarcimento, ove esso sia stato contra legem, cioè violativo del dovere imposto. Ma l'indagine sui poteri non dovrebbe, a mio modo di vedere, esaurirsi nel constatare tutto ciò. Essa dovrebbe estendersi anche nel considerare che i medesimi vanno distinti pure in relazione alla forza, loro tramite, esercitata, che muta d'intensità, perché diverso è il modo con cui gli effetti sono prodotti dai vari tipi di atto e nel considerare che le situazioni giuridiche soggettive che li riguardano possono avere contenuto eterogeneo, perché il non esercizio del potere (che pure è considerato dalla norma che contempla il medesimo esercizio come libero o doveroso) per definizione non è un atto giuridico, ma è un mero comportamento materiale.
Resta poi, per non sembrare che qui non si parli di diritto amministrativo, la questione dell'interesse legittimo. Il quale, a mio modo di vedere, non potrà essere definito che al termine della compiuta classificazione delle altre situazioni giuridiche soggettive.
A questa conclusione io giungo sulla base di un convincimento puramente empirico, manifestato dal fatto che l'interesse legittimo è peculiarità del sistema italiano. Il che, come pure è stato osservato, in passato, porta a ipotizzare che esso non sia una figura di teoria generale, ma sia, piuttosto un diverso modo con cui noi italiani denominiamo già identificate situazioni giuridiche soggettive. E, non necessariamente, tale denominazione dovrà risultare unitaria.
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