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verità e processo PDF Stampa E-mail
venerdì 24 giugno 2011
 

di Francesco Volpe



Si dice che il processo deve tendere all'accertamento della verità.

Salvo, poi, precisare subito che quel che il giudice accerta è la verità processuale e non la verità “vera”.

Sarà. Noi giuristi siamo davvero abili a confondere le idee.

Con alcuni amici, giuristi anch'essi, e particolarmente insieme a quello spirito acuto che è l'avvocato Juri Rudi in Modena, ci siamo, quasi per gioco, fermati a riflettere su cosa intendevano per “verità” i nostri antenati, Greci e Romani.

Le nostre fonti sono state piuttosto modeste; né abbiamo la competenza dei filologi. Ecco, però, quello che è saltato fuori dalla nostra piccola ricerca, che forse potrà essere utile a capire che cosa intendiamo quando affermiamo che il giudice deve ricercare la verità.

In latino, verità si diceva, principalmente, "veritas".

Il Dictionnaire étymologique de la langue latine di Ernout e Meillet dice che "verum" è collegato allo slavo "vera", che significa "credenza", ma soprattutto all'iranico "verene", che significa "io credo" e, nel suo senso più antico, "io scelgo". Una fede determinata dalla volontà, dunque. Perciò, veritas sta a significare che è vero ciò in cui io scelgo di credere. Anche tra i filosofi recenti (Schopenauer) vi è stato, in effetti, chi ha parlato di realtà come rappresentazione; in retorica, è comune parlare di verità come sinonimo di ciò che è fatto oggetto, in altri, di persuasione.

Collegato a veritas vi sarebbe, poi, anche il goto "tuz-werjan" che significa "dubitare" e il pehlevi "vavar" che significa "autentico, che merita fede".

Due notazioni, però, sono interessanti. Dalla medesima radice deriva il gallese gwir e il sassone war. Dunque, scegliere di credere in qualcosa porta alla competizione per sostenere la propria scelta. Vale a dire alla guerra. La verità non è affatto una cosa pacifica e lo sapeva benissimo chi disse che sarebbe venuto per portare turbamento e scandalo. Quanto al processo, per giungere, con esso, alla verità - cioè alla sentenza - occorre, ugualmente, passare per la lite.

L'altra cosa significativa è notare che dalla stessa radice deriva anche il termine "verbum", cioè parola. Una certa parola ha un certo significato, perché tutti conveniamo, cioè scegliamo, che essa abbia quel contenuto in cui “crediamo”.

Da ciò risulta evidente il salto logico della traduzione del prologo di Giovanni, dal greco alla Vulgata di San Gerolamo.

Se il testo greco diceva "en arké èn o Logos" (cioè verità di ragione), il testo latino, invece, dice: "in principio erat Verbum" (cioè verità di fede).

Sarebbe così da chiedere al Servus servorum se si possano trarre spunti per i suoi studi sui rapporti tra fede e ragione.

Ma, probabilmente, queste cose lui le sa già.

In greco, invece, verità si rende con "alètheia". La radice è il verbo lanthano: coprire, nascondere e, quindi, dimenticare. Il fiume Lete, appunto (ma anche una nota acqua minerale, che, evidentemente, dovrebbe essere messa fuori commercio, perché di dichiarati effetti stupefacenti).

Ora, il rapporto tra lanthano e alètheia è più complicato di quel che potrebbe sembrare.

Si potrebbe pensare che alètheia indichi ciò che viene svelato e che, precedentemente, era rimasto nascosto. Sotto questo profilo, alètheia indicherebbe che è "vero" ciò che è frutto di un processo di apprendimento e di dimostrazione: lo svelare, appunto.

Ma, probabilmente, non è così, perché il termine deriva da un diverso tempo del verbo.

Dal Dictionnaire etymologiche de la langue grecque di Chantraine, si ricava che alètheia indica ciò che non è diventato nascosto; ovvero ciò che non è stato dimenticato.

Dunque esiste anche una verità -- cioè l'"essere" -- che è collegata al fatto che una cosa non sia stata dimenticata. Sono ricordato, dunque sono.

Qui, sarebbe Foscolo ad esultare. D'altronde, l'autore dei "Sepolcri" era di madre greca e conosceva la lingua piuttosto bene. Chissà se quando scrisse quel poema pensava alla parola alètheia?

Di contro, il diverso significato di alètheia, nel senso di ciò che è "stato svelato" (e non di ciò che non viene dimenticato), sembra essere cosa molto più recente. Addirittura, sembra che non risalga oltre Heidegger.

Non è però alètheia il termine più antico, usato dai Greci, per indicare la verità.

Alètheia (inteso come sinonimo di "verità"), infatti, è sicuramente posteriore ad Omero, che lo usa poco, attribuendogli il significato di "non morto". La verità è un vampiro?

Il termine più antico per indicare "verità", nel senso di "realtà", "autenticità" di una determinata cosa, è "etumos" (eteos, all'aggettivo), da cui deriva proprio "etimologia".

Le radici di etumos sono confuse. C'è chi lo fa derivare dalla lingua hittita, ma l'ipotesi più probabile è che esso proceda dal verbo etazo, a sua volta derivato dal sanscrito "satya", che vuol dire "esaminare".

È dunque ad etumos, non ad alètheia, che va ricondotta la nozione di "verità di ragione", come contrapposta alla “veritas” di fede dei Romani.

Ciò non ostante, i Greci usavano anche altri termini per indicare la verità.

Vediamoli assieme.

Atrekès. Si trova già in Omero. Anche qui un alfa privativo. Deriva dal greco arcaico trekos ("storto") e quindi dal sanscrito tarku. Quest'ultimo termine indicava la canocchia, cioè la matassa di lana, prima della filatura. Verità come cosa lineare, semplice, non "confusa", appunto. Da trekos deriva anche il latino torqueo, che vuol dire, come sappiamo, torcere. Torquemada era dunque un bugiardo. Non fermiamoci su questi giochi di parole, però, e piuttosto proseguiamo, cercando di...  sbrogliare la matassa a proposito del concetto antico di verità.

Nemertes. Deriva dal verbo nemo, di origine incerta. Nemo significa distribuire, attribuire a ciascuno la sua parte. Al medio (di vantaggio) vuol dire "prendersi la propria parte", "approvvigiornarsi", "nutrirsi". Da ciò deriva "nomos", cioè "legge", come ben sappiamo. Ma anche "nemesi", che originariamente significava "ciò che è imposto per autorità legale". Verità come cosa ordinata, catalogata, quindi. Ma anche come affermazione imposta d'autorità. Autòs efa.

Adolos. Non ingannevole; radice comune al latino dolum, ma incerta. Secondo alcuni essa sarebbe "tal", da cui il sassone "toel" e il germanico "telos", vale a dire "discorso". Chi parla mente, chi tace "dice" il vero. Bene che le nostre memorie siano brevi, perciò, perché quel che vi è di più... "viene dal Maligno"!

Non dissimile dal precedente è "apseudos". L'alfa privativo è qui collegato al verbo pseudomai, che tutti sappiamo significare "mentire". Ma la radice è il sanscrito "bhes" - "bhastra", che significa "soffiare". Insufflare. La calunnia è un venticello, avrebbe detto altri.

Insomma, i Greci avevano tanti modi per indicare la verità.

Quasi pensassero che un'unica verità non possa esistere.

Ma torniamo ai Romani, perchè anche loro, per dire "è vero", non usavano solo la formula "verum est".

Qui il concetto di verità è più costante, ma non mancano le sorprese.

Se consultiamo il Georges, la parola verità, oltre che con veritas, si può tradurre anche con "fides".

Il significato, come constatiamo, non cambia molto: verità e ciò in cui si ripone fiducia. Al riguardo, si è abbastanza concordi sulla radice: il sanscrito "bheidh"-"bhidh", da cui deriva anche il verbo greco, dal medesimo significato, "peitho".

Sorprendentemente, troviamo che verità può essere tradotta anche con "ratio", la cui radice è molto incerta (le assonanze germaniche sembrano un'importazione dal latino e non viceversa), ma che si rifà al verbo "reor": contare. Solo come conseguenza di ciò deriva il significato di "ragionare". Come a dire che solo chi sa fare i conti pensa. In ogni caso, la parentela con il significato di verità intesa come frutto di ragionamento è consistente.

I Romani, per dire che una certa cosa è vera, dicevano anche "decretum est": "È stabilito". Non molto diversamente da nemertes in greco. La verità trova fonte nell'autorità e sull'autorità non si discute. Ma decretum deriva dal verbo "cresco", collegato alla dea Cerere e alle sementi. Ciò che è decretato, dunque, è ciò che viene dal seme: il frutto. Autorità, dunque, ma autorità che non si fonda su se stessa, ma che si fonda su una inevitabilità delle cose, perchè è inevitabile che il frutto derivi dal seme. Verità come applicazione del metodo deduttivo.

I Romani, però, erano persone concrete. Perciò la frase "è vero" si rendeva anche con il termine "res est". Anche noi diciamo, in effetti, "non è cosa".

Ma res, a sua volta, da dove deriva? Ernout e Meillet lo fanno derivare dall'indoiranico "rayi": ricchezza (e da ciò deriverebbe anche il moderno "rajah", uso a indicare il sovrano nella penisola indiana: chi comanda è dunque l'uomo ricco). La ricchezza indica consistenza; di qui trae ragion d'essere la stessa "cosa". Perché, se una cosa non vale, non è neppure "cosa". Dopo tutto, erano gli stessi Romani che dicevano: "Homo sine pecunia, imago mortis". Dunque è vero ciò che consiste, che ha valore, nel senso che se ne può fare un utilizzo materiale. Ciò che ha un prezzo diremmo noi, formati alla scuola di Adamo Smith.

Cosa trarre, in complesso, circa quello che gli antichi intendevano per verità?

I significati che venivano attribuiti al concetto erano molti e, probabilmente, descrivevano singoli aspetti della verità.

Vero, dunque, è ciò che è il frutto di ragionamento, che non è dimenticato, che è lineare e non aggrovigliato, che si descrive senza troppi discorsi e che non è frutto di inganno. È ciò in cui si decide di credere, ciò che è ricavato per necessaria consequenzialità dalle sue premesse, ciò che ha consistenza e che ha un valore.

Potremmo dire, dunque, che anche la sentenza, per tendere al vero, deve essere deduttiva, chiara nel ragionamento, non fraudolenta, tale da non trascurare circostanze importanti di causa, stilisticamente semplice e, in ogni caso, riproduttiva di quel convincimento che, nel suo foro interno, il giudice si è voluto imporre. Non è detto che una sentenza fatta così sarebbe una sentenza destinata, necessariamente, a piacerci.

Mi pare di capire, in ogni caso, che i Greci e i Romani colsero, entrambi, tutti questi aspetti della "verità"; magari i Romani davano un po' di maggiore attenzione al pragmatismo (le ricchezze, le sementi, l'autorità; alla fine, erano dei soldati, usi alla disciplina e interessati ai risultati concreti), mentre i Greci si perdevano dietro alle metafore (la lana aggrovigliata, le parole bisbigliate nell'orecchio, il velo che copre i fatti).

Se consideriamo tutti questi diversi modi di dire "è vero", fatichiamo, però, a dire che vi fosse un concetto unitario e stabilito.

Per fortuna ci rimane Aristotele, davvero grandissimo quando disse, con grande semplicità, quello che sembra scontato a noi contemporanei (ma solo perché abbiamo appreso la sua lezione): τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές (Metafisica 1011b).










Ultimo aggiornamento ( sabato 25 giugno 2011 )
 
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