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NOZIONE DI SERVIZIO PUBBLICO E MONOPSONIO SANITARIO PDF Stampa E-mail
martedì 17 aprile 2012
di FRANCESCO VOLPE

 

Questa è una storia che, per certi versi, mi  tocca da vicino e, quindi, quello che scrivo

potrà sembrare non del tutto imparziale (ma, forse, direte che questa non è una novità).


Un tempo, per individuare la nozione di servizio pubblico si seguiva un criterio formale. Era

tale l'attività, consistente nell'offerta di beni o servizi sul mercato, che fosse riservata in regime di

monopolio legale all'amministrazione.


Era, dunque, la legge a stabilire volta per volta quali attività dovessero essere considerate

servizi pubblici; un po' come era stato stabilito per i beni pubblici. Il testo unico dei

servizi comunali del 1925 costituiva il paradigma di questa idea.


Riservata alla privativa pubblica una determinata attività, la legge stabiliva  poi se e quando

l'amministrazione potesse cedere il suo diritto esclusivo all'imprenditore privato, affinché questi svolgesse

l'attività in sua vece e dietro il pagamento di un canone. E purché, naturalmente, il privato

ravvisasse in ciò un profitto.


Da lungo tempo, come si sa, la nozione formale di servizio pubblico è caduta in desuetudine,

alla stessa essendo stata affiancata - vi è chi dice: sostituita - una nozione sostanziale. È

pubblico il servizio che corrisponde ad una attività di interesse pubblico.


Non che questa diversa nozione manchi di fondamenta di diritto positivo: i primi sostenitori

della tesi le ravvisarono, per implicito, addirittura nell'art. 43 Cost. Certo gli è, tuttavia,

che la nozione sostanziale di servizio pubblico è assai più incerta, perché è incerto che cosa

sia, in senso sostanziale, l'interesse pubblico.


L'assistenza sanitaria e ospedaliera, in particolare, è un servizio pubblico?


Se seguiamo la teoria formale dovremmo dire di no, perché detta attività non è riservata dalla

legge in modo esclusivo alle amministrazioni.


Di fatto, tuttavia, l'incidenza del Servizio Sanitario Nazionale su questo settore del mercato

è tale da rendere sostanzialmente monopoliste, nell'offerta al pubblico, le Aziende sanitarie; la giurisprudenza, in

effetti, non esita a parlare, anche in tal caso, di servizio pubblico, con tutte le ovvie

ricadute in termini di riparto della giurisdizione.


Ma come si è giunti a queste conclusioni e  quali sono le aspettative dei soggetti imprenditori

privati a partecipare all'offerta sul mercato dei servizi sanitari?


Il momento che ha determinato il passaggio è stato, come è facile immaginare, la riforma del

1978.


Prima di allora l'assistenza ospedaliera, in ispecie, era erogata dagli enti ospedalieri (enti

pubblici) e dalle strutture private, le quali erano titolari di rapporti commerciali con le

Casse mutue. Queste stesse, a loro volta, altro non erano che imprese assicuratrici, sebbene si

trattasse, per i lavoratori, di una sorta di assicurazione obbligatoria.


La riforma del 1978 ha soppresso l'obbligo di assicurazione sanitaria (id est: l'iscrizione

alla mutua) e le somme che i lavoratori dovevano accantonare a titolo di sostanziale premio per

il rapporto assicurativo sono state fatte oggetto di fiscalizzazione, sì da alimentare il

neo-costituito Servizio Sanitario Nazionale.


Insomma, quel che è avvenuto nel 1978 è equivalente a quello che potrebbe avvenire se una

ipotetica legge, un domani, stabilisse che è venuto meno, per chi intende circolare in

automobile, l'obbligo di assicurazione, stabilendosi per contrappunto che i possessori dei

veicoli sono tenuti a versare un'ulteriore aliquota del loro gettito fiscale a favore di un

ente pubblico che si occuperà, nel caso, di risarcire i danni derivanti dai sinistri stradali.


Nel 1978, dunque, non è stata operata una espropriazione formale dell'attività di assistenza

sanitaria e ospedaliera. Questo sarebbe stato pur possibile (così già era  stato operato,

nel 1962, per quanto riguardava la produzione dell'energia elettrica), perché proprio l'art. 43

Cost. lo permetteva. Ma, in tal caso, l'ente espropriante avrebbe dovuto sopportare ingenti

oneri indennitari (che infatti vennero sostenuti in occasione del dies natalis dell'ENEL).


L'espropriazione nel settore sanitario fu, invece, di carattere economico e

privatistico. Fiscalizzati gli oneri dei cittadini per la spesa sanitaria, vennero di fatto

private del loro mercato sia le Casse mutue, sia le strutture ospedaliere private. Ben pochi,

tra coloro che necessitano di cure mediche, accettano oggi di approvvigionarsi, a proprie

ulteriori spese, delle prestazioni sanitarie offerte sul libero mercato, quando, di fatto, già esse vengono

"pagate" sotto forma di imposte.


Le strutture ospedaliere private, se vollero continuare ad operare, dovettero dunque risolversi

a vendere i loro servizi all'unico soggetto che rimaneva e che, a quel punto, era in grado di

acquistarle: vale a dire allo stesso Servizio Nazionale Sanitario, il quale si trovò così ad

operare, nei riguardi delle strutture ospedaliere private, come sostanziale monopsonista. Il

monopsonio è la figura speculare al monopolio: se nel secondo caso vi è un unico venditore, nel

primo vi è un unico compratore.


L'imprenditore che ha un unico cliente, tuttavia, soggiace alle decisioni di quest'ultimo,

esattamente come, nel caso di monopolio, avviene per il pubblico degli acquirenti quando un

determinato bene sia offerto da un unico venditore.


Perciò, i rapporti degli imprenditori sanitari privati con il Servizio Sanitario (un tempo

regolate da convenzioni: giustamente non da concessioni, non essendovi privativa legale

nell'amministrazione; oggi da atti di accreditamento, vale a dire forme elaborate di

provvedimenti di ammissione) ebbero fin dall'inizio natura sbilanciata. Il Servizio Sanitario

era disposto ad acquistare dal privato solo ciò che a lui era gradito. Di contro,

l'imprenditore privato, non potendo fornire i propri servizi ad altri che non fosse il Servizio

Sanitario, era costretto ad accettare quello che, con determinazione di fatto unilaterale, il

Servizio Sanitario era disposto ad acquistare. In tesi, anche zero.


Trascurerò di soffermarmi su altri aspetti, infine di dettaglio. È tuttavia evidente che una

tale situazione di mercato era in grado di generare, oltre che squilibri, anche conseguenze non

sempre felici. La concentrazione delle decisioni di mercato su un unico soggetto pubblico, da

un lato, esponeva al rischio di fatali personalizzazioni delle medesime decisioni, in cui il

confine tra il lecito e l'illecito poteva essere facilmente superato. Inoltre, il

soggetto pubblico (che è anche monopolista nell'offerta al pubblico del servizio e tale da ricavare i propri profitti

non dal corrispettivo per la propria attività, ma dal gettito fiscale) poteva essere spinto a

non controllare l'effettiva adeguatezza dei propri costi di gestione. Questi deprecabili fenomeni, verosimilmente, si

attenueranno nel futuro, via via che aumenteranno le contribuzioni ultrafiscali (c.d. tickets) che vengono

chieste a chi si rivolge al Servizio Sanitario Nazionale. Quando - e vi si è assai vicini,

almeno per le prestazioni ambulatoriali - i tickets saranno più elevati del prezzo che l'imprenditore sanitario privato chiede per prestare

al singolo la propria attività, il mercato tornerà a riequilibrarsi e si incrinerà il monopolio

(nell'offerta al pubblico del servizio sanitario) e il monopsonio (nell'acquisto

dall'imprenditore sanitario privato) attualmente sussistente in capo alle Regioni e alle  U.L.S.


Fatto gli è, in ogni caso, che le imprese ospedaliere private, anche attualmente, dipendono

dalle decisioni degli enti pubblici, i quali fissano i tetti di spesa e  stabiliscono se e quali

servizi sanitari acquistare all'esterno.


Lo squilibrio nella contrattazione economica risulta tanto più accentuato se consideriamo gli

sviluppi della giurisprudenza.


Queste brevi note traggono spunto, infatti, dalla decisione dell'Adunanza plenaria 12 aprile

2012, n. 3.


Sebbene la legge  (art. 39, d. lgs. n. 446/1997) stabilisca che i tetti di spesa

(vale a dire ciò che le Regioni e le U.L.S. decidono di acquistare dall'imprenditore sanitario

privato) vadano fissati "preventivamente", il Consiglio di Stato ritiene che essi possano essere

determinati anche con effetto retroattivo, sì da non riconoscere il pagamento delle prestazioni

già svolte dall'imprenditore privato accreditato nel passato.


A una tale conclusione porterebbe, secondo il giudice amministrativo, una lettura dell'intero

sistema. Poiché il  budget finanziario delle Regioni è fissato dallo Stato e poiché lo Stato

può determinare questo budget in ritardo rispetto al momento in cui l'attività è stata svolta,

ne segue che, a catena, anche le Regioni (e quindi le U.L.S.) possano rifarsi retroattivamente

sul fornitore privato. Solo, nel fissare retroattivamente i tetti di spesa, debbono seguirsi

particolari cautele. Pertanto, la retroattività tanto più sarà vietata, quanto più il

provvedimento pretenda di incidere indietro nel tempo. Inoltre, il Consiglio di Stato chiede

che siano svolte puntuali e concrete forme di partecipazione degli interessati. La decisione

ultima, però, resta all'ente pubblico, il quale potrà "ragionevolmente" abbattere ex tunc i tetti

semplicemente dichiarando che non ha più disponibilità finanziarie.


Un tal modo di procedere, se applicato ad un sistema interamente privatizzato, equivale a

sostenere che il compratore può rifiutarsi di pagare il prezzo pieno della merce, di cui ha già

goduto, solo perché non ha abbastanza quattrini in tasca. L'abbattimento retroattivo dei tetti

di spesa equivale, sostanzialmente e sotto il profilo delle conseguenze economiche, ad  una sorta di

concordato preventivo, senza però che il comitato dei creditori abbia diritto di rifiutare il proprio benestare.

Perché la Regione, a differenza del debitore privato, agisce con autoritatività.


Ex facto oritur ius, dice un antico brocardo pur di frequente applicazione anche oggidì. Non si

intende qui negarlo.


Tuttavia, è lecito chiedersi se davvero la programmazione imprenditoriale privata possa essere

a tal punto compromessa. L'imprenditore accetta, per definizione, il rischio di impresa. Ma il

concetto di rischio, nell'impresa, va circoscritto alle reazioni del mercato e alla propria

capacità di sostenere i costi di produzione. Non mi pare, invece, che contempli anche i

risultati delle autoritative e retroattive determinazioni delle autorità pubbliche. Un

ostacolo, a tal riguardo, va ravvisato, a mio modo di vedere, nel primo comma dell'art. 41

Cost., nonché nel principio di buona fede affermato nella legge generale sul procedimento.


In ogni caso, alla luce anche di questa pronuncia del Consiglio di Stato, sembra davvero  potersi concludere che il

settore economico dell'assistenza sanitaria e ospedaliera veda gli imprenditori privati in una

situazione di grave debolezza. Nel 1978, di fatto, essi sono stati espropriati della loro attività

senza ricevere alcun indennizzo (semplicemente perché si è proceduto attraverso un sistema di

espropriazione sostanziale, anziché ricorrere ad una espropriazione formale e imperativa); si

sono quindi trovati ad operare in regime di monopsonio sì da accettare le condizioni di

acquisto dell'unico compratore; infine viene oggi permesso a quell'unico compratore di non

pagare la "merce" pur dopo averne goduto i frutti.


Un celebre Autore, nel passato, affermò che non vi è Stato che non intervenga

nell'economia. Anche l'ideale Stato liberale, che si occupi solo della difesa dei confini e del

mantenimento dell'ordine pubblico interno, interverrebbe ugualmente nell'economia proprio

decidendo... di non intervenirvi (sì da favorire il libero mercato nella sua forma massima).


Nella situazione descritta a riguardo del mercato dell'assistenza sanitaria e ospedaliera,

tuttavia, l'intervento pubblico dell'economia è senza dubbio assai incisivo ed è attuato ora

con strumenti pubblicistici (la fiscalizzazione degli oneri sanitari), ora privatistici (la

conseguente collocazione fuori mercato degli imprenditori privati), ora di nuovo pubblicistici

(la determinazione autoritativa dei tetti di spesa), secondo che si voglia avvalersi dei

vantaggi che gli uni e gli altri strumenti offrono.


In epoca di affermate liberalizzazioni vi è da chiedersi quanto tutto ciò sia davvero coerente. 


 
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