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SULL'INTERVENTO DI ATTILIO DE MARTIN PDF Stampa E-mail
martedì 19 febbraio 2013
di FRANCESCO VOLPE
 
 

Dell'intervento di Attilio de Martin mi ha colpito soprattutto una frase: <<Per parte mia
allora ritenevo ed ancor oggi ritengo... che l’accesso al sistema della Giustizia Amministrativa dovrebbe essere non ostacolato bensì
agevolato>>.
Per quel che conta, la condivido in pieno. Essa riflette un'opinione che anch'io coltivo da
lungo tempo.
Il fatto gli è che la giustizia del cittadino contro l'apparato pubblico è la vera novità dei
sistemi statuali costituitisi dopo la Rivoluzione del 1789, sulla base delle idee del secolo
dei Lumi e dell'affermazione dello Stato di diritto.
È vero, la Rivoluzione ci ha portato il code Napoleon e, anche, un sistema organico del
diritto penale.
Tuttavia, la difesa civile, l'esistenza di rimedi volti a comporre le liti tra i particuliers
esistono almeno da 2300 anni. Né può dirsi che il diritto romano fosse meno sofisticato
dell'attuale disciplina civilistica, sia pure tenuto conto delle diverse realtà sociali e
tecnologiche di quelle epoche.
Neppure il diritto penale era assente, prima del 1789. Certo, i principi che oggi riconosciamo come
sacrosanti, sulla tipicità del reato, sulla irretroattività delle leggi penali, sulla
prevedibilità della pena, erano applicati con molto meno rigore. Ma non erano affatto
sconosciuti.
Quel che mancava, invece, era la tutela dell'individuo contro l'azione imperativa del potere
pubblico. Di talché si è sottolineato che, con il passaggio allo Stato di diritto, il suddito è
stato trasformato in cittadino. Non tanto - non necessariamente - perché egli deve essere
partecipe della cosa pubblica. Ma soprattutto perché egli deve essere in grado di difendersi
dalla cosa pubblica.
Venne poi Jellinek, con i suoi diritti pubblici soggettivi e il loro contenuto simbolico di
libertà.
Noi dovemmo accontentarci dell'interesse legittimo che, come spiegò a suo tempo Marcello
Fracanzani, era invece una figura impregnata dalla filosofia idealistica e, conseguentemente,
dall'intento di proteggere gli interessi individuali solo perché coincidenti con quelli dello
Stato, della Storia o, per chi preferisce, della Classe. Ma era, pur sempre, qualcosa. Il
cittadino continuava a rimanere cittadino.
Oggi siamo sudditi o cittadini? La domanda è enfatica e se appoggiassi la risposta sul primo
dei due corni, sarei probabilmente accusato, a ragione, d'isterico catastrofismo.
Perciò non dirò che siamo tornati sudditi. Riconosco che siamo ancora cittadini.
Siamo però meno cittadini di un tempo.
Non solo perché l'apparato statale - con la montante pressione fiscale - drena le risorse
economiche e - con i controlli sui mezzi di pagamento e sui depositi bancari (di cui si è
obbligati a servirsi proprio perché il numerario non può più essere liberamente trasferito) -
effettua un controllo indiretto sul modo con cui utilizziamo le nostre risorse e quindi sul
modo con cui viviamo. Tutto ciò è, di per sé, una evidente riduzione della sfera di libertà,
perché il denaro è bene fungibile per eccellenza, cosicché esso può essere scambiato con una
varietà potenzialmente infinita di beni e di servizi, ciascuno dei quali è altrettanto potenzialmente idoneo a soddisfare
il nostro specifico interesse, così come esso è individualmente e liberamente determinato. Perciò, quanta
maggior quantità di denaro viene a noi avocata e quanto maggiormente occhiuto è il controllo su
come noi lo impieghiamo, tanta minor libertà ci viene riconosciuta. Homo sine pecunia imago mortis.
Siamo, però,  cittadini <<affievoliti>> soprattutto perché ci son dati minori mezzi per reagire contro l'azione dell'apparato pubblico.
Nelle epoche moderne, le modificazioni delle forme di Stato non avvengono, di norma, attraverso
riforme repentine. Questo, almeno, non avviene più nei sistemi occidentali.
Le riforme si attuano, invece, attraverso piccoli interventi, destinati a cumularsi l'uno sull'altro, sino
a far emergere, poco per volta, un quadro d'insieme del tutto diverso da quello originario.
Dunque non dobbiamo aspettarci una legge - quale che ne possa essere la natura nella gerarchia
delle fonti - con cui si stabilisca che il giudice amministrativo è abolito.
Ma, in modo assai più silenzioso, assistiamo a leggi che escludono l'impugnazione per talune
tipologie di vizi, a leggi che aumentano spropositatamente il contributo unificato e così via,
con tutto il campionario delle  misure limitative dell'accesso alla giustizia amministrativa che ben conosciamo.
Tale modo di procedere è assai meno violento del primo; tende a sottrarsi a
reazioni intense; è capace di creare assuefazione in chi lo subisce. Ma il
risultato è analogo.
Ebbene, io ritengo che tale risultato non possa essere apprezzato. Come osserva Attilio de
Martin, l'accesso alla giustizia contro l'autorità pubblica dovrebbe essere, invece,
facilitato, perché esso è il solo metodo tangibile e concreto con cui si afferma
l'individualità del cittadino di fronte allo Stato. Astrarre l'apparato pubblico da un
ordinamento, di cui esso stesso sia soggetto giuridico alla pari dei singoli, significa negare
l'individualità del cittadino e limitare la sua sfera di libertà. Ma proprio tale astrazione viene ad essere operata, ove si sottragga l'autorità ad una verifica giurisdizionale in cui sia controparte il cittadino.
Dunque, a rigore, non dovrebbe esserci nessun contributo unificato da pagare, quando si
presenta il ricorso al T.A.R. Dovrebbe, anzi, essere assicurato un facile accesso e, a rigore,
persino un difensore pubblico.
Tutti noi ricordiamo - e citiamo - la vicenda del mugnaio di Potsdam, certo di ottenere
giustizia contro l'espropriazione che lo affliggeva.
Non tutti sanno, però, come andò a finire quella storia. Essa è raccontata nel volume di
Wolfgang Venhors <<Federico il grande re di Prussia>>, pubblicato in Italia da Garzanti nel
1988.
Tanto il mugnaio strepitò che Federico istituì una commissione per verificare la correttezza
dell'operato reso dal Tribunale di Kustrin, nel dar torto ad Arnold. E poiché anche tale
commissione non poté modificare la sentenza, il monarca convocò i componenti del Tribunale, il
giorno 11 dicembre 1779. Un sabato mattina.
Federico accolse i magistrati in veste da camera, scarmigliato, la sentenza in pugno.  Li
apostrofò in modo piuttosto ruvido e, al termine dell'incontro, li sollevò dall'incarico:
<<Sparite! il vostro posto l'avete già perduto!>>. Ma non si limitò a congedarli. Si curò,
invece, di imprigionarli e così fino al 5 gennaio 1780. Quindi nominò un'ulteriore
commissione d'indagine, affidandone la direzione al ministro von Zedlitz, non senza aver così
condito l'incarico: <<È necessaria una lezione perché queste canaglie abusano enormemente del
mio nome per compiere giustizie immani e inaudite>>.
Lo Zedlitz prese in mano tutta la faccenda e quando, con mille scuse, consegnò la sua
relazione, dovette ammettere di <<non essere in grado di condannare i funzionari arrestati nel
caso Arnold>>.
Se voi non volete pronunciarvi, lo farò io - replicò Federico - e la mia sentenza è questa:
questi vigliacchi, intendo i funzionari giudiziari, vengono spesi dal servizio e condannati alla
prigione in una fortezza, e dovranno risarcire il valore del mulino nonché tutti i danni subiti
dal mugnaio Arnold.
Ma la cosa non finì lì, perché Federico, qualche tempo dopo, si fece prendere dagli scrupoli e,
a mente fredda, riesaminò la vicenda. Nove mesi più tardi ammise: <<Stavolta sono stato
ingannato. Il debole aveva torto. Se ritrattassi la mia parola, le vessazioni si inasprirebbero
ancora. È duro, è ingiusto, ma ora non si può fare diversamente; sono stato troppo
precipitoso. Ah questo Arnold, questo maledetto briccone!>>.
Federico Guglielmo, successore di Federico il Grande, completò l'opera di revisione,
riabilitando i funzionari e reintegrandoli delle somme che erano stati costretti a pagare.
Dunque il mugnaio aveva torto e, invece, aveva ragione il barone di Gersdorf, nel voler
costruire una peschiera al posto del mulino. E Federico fu effettivamente precipitoso, oltre
che esageratamente severo nell'applicar sanzioni.
Ciò non ostante, il caso del mugnaio di Potsdam viene ancora ricordato per l'idea che esso
trasmette.
Vale a dire che anche ad un <<maledetto briccone>> deve essere sempre assicurata giustizia contro l'apparato statale.



Ultimo aggiornamento ( martedì 19 febbraio 2013 )
 
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