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Alcune considerazioni sull'ineffettività della Giustizia Amministrativa in ottica transnazionale. PDF Stampa E-mail
venerdì 01 marzo 2013

di PAOLO PIVA

 

 Il tema dell’ineffettività della giustizia amministrativa non è certamente nuovo se solo si tengono a mente le risalenti osservazioni di Giannini e Piras sulla giurisdizione amministrativa[1] o anche le più recenti considerazioni della Corte costituzionale in tema di riparto, il quale, inter alia, avrebbe il demerito di aver “acuito la diffusa sensazione della sostanziale ingiustizia della disciplina vigente” (sentenza n. 77/2007).

 

Quello che, tuttavia, lascia particolarmente perplessi e amareggiati sembra il fatto che, nonostante l’indubbia evoluzione in senso democratico e moderno dell’ordinamento italiano (indotta anche dall’ordinamento internazionale e particolarmente dell’Unione europea) e nonostante il recente espresso richiamo al principio di effettività di cui all’art. 1 del nuovo c.p.a. il legislatore italiano e il giudice amministrativo paiano talora letteralmente disinteressarsi delle esigenze, finanche minime, di effettività.

In questi mie brevi note, cercherò di offrire qualche spunto sul tema, avvalendomi non solo della giurisprudenza della Corte di giustizia e di principi di diritto dell’Unione e/o internazionale (in particolare della Convenzione EDU del 1950: cfr. ad esempio artt. 6 e 13), ma anche delle provocazioni ricavabili dalle suggestive pagine dell’amico Francesco Volpe, il quale ha avuto il merito, fra l’altro, di segnalare anticipatamente i sintomi di queste nuove forme di ineffettività.

Prima di entrare in medias res, vorrei abbozzare alcune distinzioni di sistema di diritto dell’Unione europea che mi paiono imprescindibili nella mia prospettiva.

Base di partenza fondamentale è il sistema di tutela giurisdizionale ricavabile dai vigenti Trattati (TUE e TFUE).

C’è una tutela diretta davanti alla Corte di giustizia nella sua articolazione individuabile nell’art. 13 e 19 TUE che, tuttavia, ci interessa in questa sede assai meno, in quanto, tendenzialmente, i ricorrenti non privilegiati (i.e. diversi da quelli privilegiati che sono invece  Stati e istituzioni) hanno un accesso assai limitato nei limiti assai ristretti e rigorosi degli artt. 263-265-268-340 TFUE

C’è poi la tutela cd. indiretta che si attua in particolare attraverso il meccanismo fondamentale dell’art. 267 TFUE per cui il giudice nazionale, in presenza di una questione di interpretazione e/o di validità relativa alla norma comunitaria può e/o deve (se giudice di ultima istanza –con le attenuazione di Cilfit 1981- o comunque anche di prima istanza in caso di presunta invalidità della norma dell’Unione: sentenza Fotofrost del 1987) rinviare alla Corte di giustizia per la soluzione della stessa.

E’ in questo contesto indiretto che, in realtà, si gioca l’effettività del diritto dell’Unione europea e per definizione anche del diritto italiano che ne deve garantire la sua attuazione, posto che in virtù dei principi di diretta efficacia e primato, il diritto comunitario si atteggia più a diritto interno (integrandosi con quello nazionale) che a diritto di origine esterna.

E in virtù di una sorta di sdoppiamento funzionale (dédoublement fonctionnel secondo l’icastica immagine di G. Scelles), i giudici e le amministrazioni nazionali si trasformano in veri e propri giudici e amministrazioni dell’Unione di diritto comune.

Questa premessa è strumentale ad un’affermazione che parrebbe quasi negare in radice ogni coinvolgimento del diritto dell’Unione europea nel diritto processuale amministrativo italiano: il diritto dell’Unione europea si limita alla posizione della norma sostanziale, lasciando agli Stati membri la competenza sulla qualificazione processuale della situazione giuridica sostanziale avente causa petendi nel diritto dell’Unione.

Si può esprimere il medesimo concetto anche con il richiamo di un principio ben noto ai comunitaristi: il principio dell’autonomia istituzionale e processuale degli Stati membri[2].

In altre parole, mentre si può ben dire che esiste un diritto processuale comunitario nella misura in cui si sta discutendo della cd. tutela diretta (davanti al Tribunale e alla Corte di giustizia), si deve negare che esista un vero e proprio diritto processuale comunitario per la cd. tutela indiretta proprio perché, per definizione, lo Stato membro è in teoria sovrano nel disporre le forme di tutela processuali interne. Anzi, la “sanzione interna” della norma comunitaria è persino in buona parte non solo processuale, laddove, ad esempio, si faccia applicazione di termini sostanziali di prescrizione e decadenza che incidono necessariamente sull’azionabilità della pretesa, rendendo per ciò stesso l’uniformità del diritto dell’Unione una mera speranza. 

La Corte di giustizia, tuttavia, nella sua ultrasessantennale attività pretoria, ha fatto comprendere che questo è vero fino ad un certo punto, ovvero nella misura in cui il diritto processuale nazionale a) non riservi alla situazione giuridica con causa petendi comunitaria una tutela diversa e per definizione inferiore a quella offerta ad analoghe pretese di diritto interno (principio dell’equivalenza); e b) in ogni caso, la tutela processuale nazionale non renda praticamente impossibile o anche solo difficile l’azionabilità della pretesa basata su norma dell’Unione (principio dell’effettività).

E’soprattutto in relazione a quest’ultimo principio di effettività che la Corte ha esercitato -e pesantemente- il proprio cd. droit de regard (Tizzano) sul diritto processuale nazionale, arrivando a modificare in modo pervasivo le norme processuali nazionali.

Ad esempio, Commissione c/ Grecia del 19 settembre 1996 (C-236/95 (Racc., I-4459), in cui la Corte ha stabilito, con riferimento alla procedura amministrativa greca, che essa “omissis (…) riguarda unicamente le procedure di sospensione dell’ esecuzione e presuppone l’esistenza di un ricorso principale per l’annullamento dell' atto amministrativo impugnato, mentre, ai sensi dell' art. 2 della direttiva, gli Stati membri sono tenuti, più generalmente, a conferire ai loro organi competenti a conoscere dei ricorsi la facoltà di adottare, indipendentemente da ogni azione previa, qualsiasi provvedimento provvisorio, «compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione pubblica di un appalto»” (punto 11)[3].

Questa giurisprudenza ha suggerito al legislatore italiano l’opportunità di inserire il nuovo art. 61 del c.p.a. sull’ammissibilità eccezionale di una tutela cautelare ante causam.

Ancora in materia di termini di decadenza/prescrizione, la Corte si è sentita abilitata ad affermare, in Grundig Italiana Spa, causa C-255/00 (Racc., I- 8003 ss.),  che “il diritto comunitario osta all’applicazione retroattiva di un termine di decadenza più breve e, eventualmente, più restrittivo per l’attore del termine di ricorso precedentemente applicabile alle domande di rimborso di imposte nazionali incompatibili con il diritto comunitario, quando non è garantito un periodo transitorio sufficiente durante il quale le domande vertenti su importi versati prima dell'entrata in vigore del testo che introduce questo nuovo termine possono ancora essere presentate in osservanza del vecchio termine. Nell’ipotesi di sostituzione di un termine di decadenza triennale a un termine di prescrizione quinquennale, un periodo transitorio di 90 giorni dev’essere considerato insufficiente e il periodo transitorio minimo tale da non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto a un siffatto rimborso dev’essere valutato pari a sei mesi” (punto 42).  

La stessa pronuncia Francovich del 1991, in base alla quale lo Stato membro deve rispondere del danno causato a privati dalla violazione sufficientemente grave e manifesta di norme comunitarie, ha indotto la Cassazione a rivedere la propria giurisprudenza oramai pietrificata in tema di irrisarcibilità dell’interesse legittimo.

Queste ultime considerazioni in tema di un diritto al risarcimento come coessenziale ad una tutela effettiva, inerente al sistema dei trattati, è in fondo quel che ci consentirebbe ancora oggi di contestare molte soluzioni, adottate more italico, sul risarcimento del danno dopo il decreto 80/98 la L. 205/2000 e il nuovo codice del processo (artt. 30 ss).

Il ragionamento che si deve fare a questo riguardo è piuttosto semplice: al diritto dell’Unione non interessa, in fondo, che la posizione giuridica tutelata dalla norma dell’Unione venga qualificata, jure domestico, come interesse legittimo o diritto soggettivo, che il giudice competente sia quello amministrativo piuttosto che quello ordinario; all’ordinamento europeo interessa tuttavia che ci sia un risarcimento, che la tutela risarcitoria non sia solo teorica, o ridicola e/o subordinata a paletti, condizioni o presupposti che la rendono praticamente impossibile o molto difficile in concreto.

Con ciò non si vuole affermare, ovviamente, che il diritto al risarcimento –quando vi è la copertura del diritto dell’Unione- sia una conseguenza naturale dell’illegittimità dell’atto, posto che la Corte impone che i giudici nazionali valutino se vi sia stata una violazione sufficientemente grave e manifesta del diritto del’Unione (Brasserie de Pecheur, Factiortame III, Hedley Lomas del 1996).

Ragionando in tema di appalti, ad esempio, se la Stazione appaltante introduce una clausola patentemente discriminatoria e/o escludente in violazione magari a principi inconcussi di diritto del’Unione (si pensi all’art. 23 Direttiva 18/2004/CE o al corrispondente art. 68 Codice contratti), non è che poi il Giudice amministrativo si possa inventare strani “giudizi di probabilità” per negare la risarcibilità o per trasformare la prova del danno in una sorta di probatio diabolica.

Dunque, per il diritto dell’Unione esistono semplicemente interesse giuridicamente tutelati, il che ci riporta alla risalente definizione del maestro dell’Interessenjurisprudenz, Jhering: Rechte sind rechtlich geschuetzte Interessen.

E non è un caso che in ipotesi di violazioni che, in molti ordinamenti, compresi il nostro, non sarebbero risarcibili o non agevolmente risarcibili, la Corte abbia invece riconosciuto la risarcibilità della posizione del singolo tutelata.

Così in Wells, 2004,  si afferma che “lo Stato membro ha l’obbligo di risarcire tutti i danni causati dalla mancata valutazione dell’impatto ambientale” (punto 66) e che “a tal proposito, spetta al giudice nazionale accertare se il diritto interno preveda la possibilità di revocare o di sospendere un’autorizzazione già rilasciata al fine di sottoporre il detto progetto ad una valutazione dell’impatto ambientale, conformemente a quanto richiesto dalla direttiva 85/337, o, in alternativa, nel caso in cui il singolo vi acconsenta, la possibilità per quest’ultimo di pretendere il risarcimento del danno subito” (punto 70).

            In altra pronuncia, D. Janecek, decisa dalla Corte il 25 luglio 2008 (causa C-237/07), ancora, si discuteva dell’azionabilità di interessi difficilmente qualificabili come diritti, vertendosi in situazioni giuridiche protette da una direttiva in materia ambientale.

Più precisamente, si discettava della possibilità per un cittadino tedesco di richiedere, in forza dell’art. 7 della direttiva 96/62/CE in materia di valutazione e di gestione dell’aria ambiente (modificata dal regolamento 1882/2003/CE), al giudice amministrativo tedesco che il Freistaat Bayern predisponesse un piano per la qualità dell’aria nel settore della Landshuter Allee, situato sulla circonvallazione interna di Monaco di Baviera, dove egli risiedeva.

Ciò in considerazione che, nel corso del 2005 e 2006, i valori di PM10 erano stati superati ben più delle 35 volte annue consentite dalla legge tedesca sull’inquinamento dell’aria.

Dopo alterne vicende giudiziali, il Bundesgerichtshof aveva rinviato alla Corte di giustizia per avere dei lumi sulla questione sub judice, non mancando di precisare che, per esso, comunque, il sig. Janecek non era titolare di alcun diritto alla predisposizione di un piano d’azione, in forza della legge tedesca di attuazione della direttiva 96/72 (punto 18).

La Corte, invece, e forse in modo inatteso, ha avuto modo di precisare che «l’art. 7, n. 3, della direttiva del Consiglio 27 settembre 1996, 96/62/CE, in materia di valutazione e di gestione della qualità dell’aria ambiente, come modificata dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 settembre 2003, n. 1882, dev’essere interpretato nel senso che, in caso di rischio di superamento dei valori limite o delle soglie di allarme, i soggetti dell’ordinamento direttamente interessati devono poter ottenere dalle competenti autorità nazionali la predisposizione di un piano di azione, anche quando essi dispongano, in forza dell’ordinamento nazionale, di altre procedure per ottenere dalle medesime autorità che esse adottino misure di lotta contro l’inquinamento atmosferico».

Donde l’azionabilità persino di una pretesa risarcitoria in fattispecie analoghe.

Infine, vorrei riferirmi alle conclusioni in Impact dell’A.G. Kokott[4], secondo la quale “non sussiste alcuna differenza sostanziale fra le norme relative alla competenza e quelle relative alle regole procedurali: una cattiva gestione del procedimento, infatti, può rendere molto gravoso l’accesso del singolo alle giurisdizioni nazionali quanto una cattiva normativa sulla competenza” (punto 50, conclusioni).

Tanto abiliterebbe, ad esempio in Italia, a contestare la giurisdizione del giudice amministrativo laddove fosse possibile dimostrare che l’attribuzione al medesimo della competenza a conoscere di una certa questione avrebbe come naturale conseguenza una insufficiente tutela sotto il profilo dei contenuti e/o delle modalità particolarmente aggravate della stessa.

A questa giurisprudenza, deve aggiungersi oggi la tutela derivante dagli artt. 47-49 della Carta dei diritti di Nizza (o Strasburgo) cui il Trattato di Lisbona ha attribuito lo stesso valore giuridico dei trattati (art. 6 TUE).

Vale la pena qui ricordarli perché possono servire in questa prospettiva, pur tenendo a mente che le disposizioni della Carta, da un lato, non aumentano le competenze dell’Unione (art. 6 TUE), dal’altro, non possono essere invocate in fattispecie non coperte dal diritto dell’Unione (cfr. art. 51 Carta).

Particolarmente rilevante, ai presenti fini, l’art. 47[5] che potrebbe persino giustificare di contestare la giurisdizione del giudice amministrativo sotto il profilo della sua imparzialità.

Infine, in un prossimo futuro, a seguito dell’adesione dell’Unione alla CEDU (art. 6, n° 2, TUE), è evidente che anche altre disposizioni importanti (particolarmente gli artt. 6 e 13) potranno servire alla bisogna nell’ottica di favorire l’effettività della giustizia amministrativa.

Fatte queste preliminari considerazioni, è opportuno osservare che, dopo il nuovo codice del processo amministrativo, l’introduzione del principio di effettività di cui all’art. 1, non è stato del tutto privo di effetti.

E’ stato così osservato, ad esempio, che “la natura speciale mista (cognitiva ed esecutiva insieme) dell’azione ex art. 2932 c.c., derogatoria della normale separazione tra azione cognitoria e azione esecutiva, non la rende incompatibile con la struttura del processo amministrativo come delineato dal relativo codice tanto più che, da un lato, non solo è espressamente prevista un’azione (di ottemperanza), anch’essa caratterizzata dalla coesistenza in capo al giudice di poteri di cognizione ed esecuzione insieme e, d’altro lato, non può neppure sostenersi la tesi di una eventuale ‘tipicità’ delle azioni proponibili nel processo amministrativo, tipicità che sarebbe in stridente e inammissibile contrasto, oltre che con i fondamentali principi di pienezza ed effettività della tutela, ex art. 1 c.p.a., con la stessa previsione dell’art. 24 della Costituzione” (Consiglio di Stato ad. plen., 20/07/2012, n. 28).

Il che, ovviamente, consente di ben sperare nell’ottica di ricavare dal principio di effettività conseguenze rilevanti per il processo amministrativo in generale.

Ciononostante, rimangono notevoli difficoltà pratiche e residua quella sensazione di disagio, oggi, nell’introdurre ricorsi avanti al Giudice amministrativo.

Seguendo un po’ le osservazioni di Francesco Volpe, una prima osservazione va senza dubbio riservata al tema del contributo unificato: costi di questo genere, unitamente ad orientamenti del tipo che anche la risposta al preavviso di ricorso deve essere impugnata a pena di inammissibilità (con motivi aggiunti perché intervenuta dopo l’introduzione del ricorso), nonché tutti gli atti della sequenza di un normale procedimento di aggiudicazione (motivi aggiunti su tutto per tuziorismo) siano sicuramente incompatibili con il diritto dell’Unione e con le direttive ricorsi (659/89 e 66/2077).

Dunque, oltre ai normali rimedi interni (questione di costituzionalità), si potrà senz’altro, anche come associazione amministrativisti, rivolgere una denuncia alla Commissione per segnalare la gravissima violazione del diritto ad un ricorso effettivo ed efficace (un po’ alla stregua di quanto segnalato nel ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo).

Sul tema della sospensione, purtroppo, al di là di quanto ricavabile da pronunce di sistema quali ad esempio Factortame o Commissione c/ Grecia, non si può, a normativa invariata, tentare di spingere nel senso di arrivare ad introdurre sospensioni automatiche del tipo di quelle vigenti in Germania, dal momento che, a tacer d’altro, anche alla Corte di giustizia o al Tribunale l’introduzione del ricorso non ha effetto sospensivo.

La disciplina rinvenibile nelle direttive ricorsi e la giurisprudenza della Corte, tuttavia, può consentire di ritenere che l’interesse pubblico non sia quel simulacro di verità che giustifica, comunque ed ad ogni costo, la prevalenza del medesimo su quello dei privati, anche perché le direttive appalti, semmai, hanno fondamentalmente alla loro base la volontà del legislatore comunitario di tutelare l’interesse preminente della concorrenza nel contesto del mercato interno.

Mi permetto ancora di segnalare che in Salgoil (1968), questione sollevata dalla Corte d’appello di Roma su un caso di richiesta risarcitoria per diniego di autorizzazione all’importazione da parte del Ministero del commercio estero, la Corte ebbe a precisare inter alia che la complessità di determinate situazioni in uno Stato non può alterare la natura giuridica di una disposizione comunitaria direttamente applicabile ... “, essa afferma che “gli articoli 31 e 32 [art. 28: n.d.a.] obbligano le autorità e in particolare i giudici competenti degli Stati membri a proteggere gli interessi dei singoli contro eventuali violazioni di dette disposizioni garantendo loro la tutela diretta ed immediata dei loro interessi e ciò indipendentemente dal rapporto intercorrente, secondo il diritto nazionale, fra detti interessi e l’interesse pubblico a cui si riferisce la questione. Spetta all’ordinamento giuridico nazionale lo stabilire quale sia il giudice competente a garantire detta tutela e, a tale effetto, il decidere come debba qualificarsi la posizione individuale in tal modo tutelata”.

Successivamente, in Foglia/Novello, nel lontano 1981, la Corte ha avuto modo di ribadire la medesima idea persino in relazione ad uno Stato membro estero, osservando che “nel caso di questioni volte a consentire al giudice nazionale di valutare la conformità col diritto comunitario di disposizioni di legge o di regolamenti di un altro Stato membro, il grado di tutela giurisdizionale non può differire a seconda che tali questioni siano sollevate nell’ambito di un giudizio fra privati ovvero in un procedimento in cui sia parte lo Stato la cui normativa sia contestata.

 Ancora, sul tema dell’azione risarcitoria, in merito alla questione della pregiudizialità dell’azione di annullamento, non possiamo ricavare grandi argomenti dal diritto dell’Unione, se solo si consideri che la Corte di giustizia è giunta ad esiti assai simili per quanto concerne l’azione di cui agli artt. 268-340 TFUE.

La questione della lentezza del processo, invece, è stata più volte presa in considerazione dai giudici di Lussemburgo anche in relazione a procedimenti eccessivamente lunghi svoltisi a Lussemburgo.

Al di là del noto caso Baustahlgewebe del 1998, recentemente il Tribunale, nel caso T-214/06 (ICI c/ Commissione) ha affermato che “qualora nella fattispecie dovesse constatarsi una violazione del principio del termine ragionevole, anche dovuta, eventualmente, alla durata del procedimento giurisdizionale dinanzi al Tribunale, quest’ultimo sarebbe in grado, attraverso la riforma della decisione impugnata, di condannare la ricorrente al pagamento di un importo dal quale potrebbe essere eventualmente detratta la somma corrispondente ad un equo indennizzo per la durata eccessiva della procedura (v., in tal senso e per analogia, sentenza FIAMM e a./Consiglio e Commissione, cit. supra al punto 288, punto 210)”(p. 294).

   Dunque, considerazioni analoghe dovrebbero valere in generale anche per la tutela offerta dal giudice nazionale –al di là della nota legge Pinto per violazione dell’art. 6 CEDU- in casi di “copertura” della fattispecie da parte del diritto dell’Unione.

Prima di concludere, ritengo possano essere utili due ulteriori annotazioni.

Da un lato, la Corte di Cassazione, notoriamente, ha aperto una breccia importante nella possibilità di sindacare l’operato dei giudici amministrativi sotto il profilo del’effettività.

Val la pena di richiamare i contenuti di Cassazione sez. un., 23/12/2008, n. 30254.

Ai fini dell'individuazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, che tradizionalmente delimitano il sindacato consentito alle sez. un. sulle decisioni del Consiglio di Stato che quei limiti travalichino, si deve tenere conto dell'evoluzione del concetto di giurisdizione - dovuta a molteplici fattori: il ruolo centrale della giurisdizione nel rendere effettivo il primato del diritto comunitario; il canone dell'effettività della tutela giurisdizionale; il principio di unità funzionale della giurisdizione nella interpretazione del sistema ad opera della giurisprudenza e della dottrina, tenuto conto dell'ampliarsi delle fattispecie di giurisdizione esclusiva; il rilievo costituzionale del principio del giusto processo, ecc. - e della conseguente mutazione del giudizio sulla giurisdizione rimesso alle sez. un., non più riconducibile ad un giudizio di pura qualificazione della situazione soggettiva dedotta, alla stregua del diritto oggettivo, né rivolto al semplice accertamento del potere di conoscere date controversie attribuito ai diversi ordini di giudici di cui l'ordinamento è dotato, ma nel senso di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi, che comprende, dunque, le diverse tutele che l'ordinamento assegna a quei giudici per assicurare l'effettività dell'ordinamento. Infatti è norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto a quel potere stabilendo le forme di tutela attraverso le quali esso si estrinseca. Pertanto, rientra nello schema logico del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione l'operazione che consiste nell'interpretare la norma attributiva di tutela, onde verificare se il giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 111, comma 8, cost., la eroghi concretamente e nel vincolarlo ad esercitare la giurisdizione rispettandone il contenuto essenziale, così esercitando il sindacato per violazione di legge che la S.C. può compiere anche sulle sentenze del giudice amministrativo”.

Dall’altro, il diritto dell’Unione, ha oramai consolidato la possibilità che anche i giudici siano chiamati a rispondere per violazioni gravi di diritto dell’Unione europea: proprio in relazione alla nostra legge sull’(ir)responsabilità dei magistrati, la n. 117/88, la Corte ha recentemente affermato che “l’Italia non è stata in grado di provare che l’interpretazione di tale legge ad opera dei giudici italiani sia conforme alla giurisprudenza della Corte di giustizia, nel senso di porre un semplice limite alla responsabilità dello Stato e non nel senso di escluderla, nell’ipotesi di violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado. Motivo per il quale la predetta legge risulta non conforme al diritto dell’Unione, nella misura in cui esclude o limita la responsabilità dei magistrati per i danni arrecati ai singoli a seguito della violazione del diritto dell’Unione” (sentenza Commissione c/ Italia 24.11.2011 in C-379/2010).   

Anche in quest’ottica, l’effettività della giustizia amministrativa non potrà che migliorare se gli avvocati non saranno troppo restii o timorosi nell’ iniziare procedimenti per l’accertamento della responsabilità dei giudici a questo titolo (con ogni naturale conseguenza sull’intero sistema in virtù della penetrazione del principio ricavabile dall’art. 3 Cost.).


[1]Il sistema da noi vigente è non un sistema ma un parasistema. Crea ingiustizia e genera disordine sociale….E’ un falso problema, dunque, quello che taluni prospettano di una riforma del “sistema” di giustizia amministrativa in Italia. Qui non vi è nulla da modificare. Vi è solo da cambiare in radice” (M. S. GIANNINI-A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa, in Enciclopedia del diritto, XIX, 1970, 294 ss.)

 

[2] A rigore questo è vero fino ad un certo punto, perché a partire da metà degli anni novanta, la Corte ha cominciato ad elaborare il principio del parallelismo della tutela giurisdizionale secondo cui gli standard di effettività garantiti a livello nazionale devono (o dovrebbero) essere garantiti anche avanti i giudici di Lussemburgo e viceversa (cfr. ad esempio la nota pronuncia Bergaderm del 2000).

[3] Come noto, il c.d. rito ambrosiano (la tutela ante causam in tema di appalti, da parte del Tar Lombardia, quale diretta “applicazione” della pronuncia della Corte) è stato sempre “cassato” dal Consiglio di Stato e finanche dalla Corte costituzionale (Corte cost., ord. 10 maggio 2002, n. 179). E ciò, nonostante plurime ri-affermazioni del principio da parte della Corte (cfr. sentenza 15 maggio 2003, Commissione c/ Regno di Spagna, causa C-214/00 -Racc., I-4667- e infine ord. DAC 29 aprile 2004, C-202/03.

[4] Nella causa C-268/06, conclusioni del 9 gennaio 2008.

[5] Articolo 47 Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale. “Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare. A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti Ë concesso il patrocinio a spese dello Stato qualora sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia”. Così del resto la corrispondente disposizione della CEDU (cfr. art. 6).

 

 

 

Ultimo aggiornamento ( venerdì 01 marzo 2013 )
 
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