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lunedì 07 aprile 2014

di FRANCESCO VOLPE

 Ebbene si, in occasione di un giudizio di appello, il Consiglio di Stato (sez. V, 1436/2014) ha condannato la parte da me assistita ad una certa sanzione, ex art. 26, comma II, c.p.a., per aver agito  <<temerariamente in giudizio>>.

Mi è stato riferito che alcuni Colleghi si sono interessati della cosa; non potendoli raggiungere individualmente, ho pensato di farlo da qui, per spiegare i gravi misfatti di cui mi sono macchiato.

Il merito della controversia ha un'incidenza solo indiretta.

In sostanza, il mio cliente era incorso in una causa di esclusione da una evidenza pubblica, per non avere versato una assai modesta somma  dovuta a titolo previdenziale. In primo grado, la causa era stata da me introdotta quando ancora (2011) non era affermata, in giurisprudenza, la tesi secondo la quale sarebbe <<grave>>  ogni violazione degli obblighi previdenziali che conduca all'emanazione di un DURC negativo (vale a dire: ogni violazione).

Il T.A.R. definiva la controversia in forma semplificata.

Ed ecco il punto: nel rigettare il ricorso, il giudice di prime cure esaminava, nella scarna motivazione, solo uno dei tre motivi d'impugnazione da me sollevati (quello relativo alla falsa applicazione dell'art. 38, cod. contr. pubb.), omettendo l'esame degli altri due.

Soprattutto, però, il T.A.R. riconosceva che, fino a pochi mesi prima, la sua stessa giurisprudenza era orientata nel senso che doveva riconoscersi alla Stazione appaltante discrezionalità nel valutare la gravità della violazione degli obblighi previdenziali. Ma, aggiungeva il giudice territoriale, egli aveva da allora cambiato opinione.

Feci appello - siamo nel 2012 e ancora doveva venire l'Adunanza Plenaria  - e io, udite udite, anziché limitarmi a contestare nel merito la sentenza di primo grado, chiedevo in via principale l'annullamento con rinvio.

Ritenevo, infatti, violato il diritto di difesa per due ragioni.

La prima consisteva nell'omissione di pronuncia sui motivi assorbiti: anche con riguardo a loro avevo diritto al doppio grado e, quindi, anche ad una statuizione in entrambi i gradi di giudizio.

La seconda ragione era da ravvisarsi nella mancanza dei presupposti che consentono la definizione del giudizio in forma semplificata. Detto tipo di sentenza si pronuncia, come ognuno di noi ben sa, quando la causa sia manifestamente fondata o manifestamente infondata. Come  ritenersi manifestamente infondata una domanda circa la quale lo stesso giudice di primo grado riconosceva che, nel mentre pronunciava sentenza, egli stava modificando la sua stessa giurisprudenza?

Ecco dunque la lesione del diritto di difesa: se avessi potuto godere di un processo condotto nelle forme ordinarie, con una udienza di merito e con tutte le mie memorie conclusionali, avrei potuto affrontare una tema sì impegnativo qual era quello della specifica causa di esclusione e, forse, sarei anche riuscito a  convincere il giudice che era corretta la prima delle due, diverse, interpretazioni.

Ho ritenuto utile spiegare questi aspetti perché, dalla lettura della sentenza di appello, essi non sono facilmente desumibili.

La mia colpa è stata, infine, di lesa maestà: ho osato attaccare l'istituto della semplificata.

Che dire? Personalmente, interpreto la sanzione quasi a mo' di una medaglia al valore. Del resto, anche a scuola premuravo ogni quadrimestre di combinare quel minimo di marachelle necessarie ad evitare il dieci in condotta, che ho sempre trovato assai stucchevole.

Ed è con questo spirito, anche un po' goliardico,  che io, novello Enrico Toti, saluto i cari Colleghi.

Non mi voglia, però, male l'eroe,  se mi permetto il paragone. Una certa somiglianza, in effetti, sussiste. Come lui, ho l'impressione, infatti, che anche noi, in qualche caso, <<combattiamo>> sol di stampella armati.

Grazie a tutti per la solidarietà.

 

Ultimo aggiornamento ( lunedì 07 aprile 2014 )
 
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