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LA FORMA DEGLI ATTI PROCESSUALI DOPO L'ENTRATA IN VIGORE DEL PAT PDF Stampa E-mail
giovedì 16 febbraio 2017

di Francesco Volpe


1) L'entrata in vigore del processo amministrativo telematico ha creato, come era inevitabile, alcuni dubbi in merito alla forma degli atti processuali.

In particolar modo, nella prassi è sostenuto da alcuni che, d'ora in poi, gli atti di parte – e il ricorso introduttivo, in particolare – non possano che essere redatti, originariamente, in forma digitale; che gli stessi non possano più avere forma analogica, ancorché degli stessi si possa produrre una copia digitale.

Stanno, perciò, attuandosi alcuni usi, onde adeguarsi a tale nuovo, ipotetico, regime.

Tali usi non sembrano, però, del tutto lineari e danno luogo ad alcuni espedienti piuttosto ridondanti, quando essi non siano, addirittura, di incerta praticabilità giuridica.

Taluni pratici, una volta creato originariamente il ricorso in formato digitale, e dopo averlo digitalmente firmato, al momento della notifica appongono all'atto una sorta di attestazione, che avrebbe lo scopo di asseverare che ciò che viene, analogicamente, notificato è conforme all'originale digitale. Si pone il dubbio, però, di comprendere come venga giustificata, in tal caso, l'autenticazione della procura speciale la quale, pur sempre, dovrebbe essere allegata al ricorso o alla memoria di costituzione (art. 83 c.p.c.), ma che, se rilasciata essa stessa in forma analogica, non può evidentemente essere “spillata” all'originale digitale e ad un supporto magnetico. È incerto anche, come si vedrà, se il potere di asseverazione la conformità di un atto analogico ad un originale digitale sia riconosciuto, nel processo amministrativo, al difensore.

Altri, invece, si discostano dall'esposta prassi e preferiscono ricorrere al sistema del doppio originale. Essi confezionano, perciò, sia un originale analogico, sia un originale digitale, destinando il primo alla notificazione. Successivamente attestano la reciproca conformità dei “due originali”. Il tutto, però, sul presupposto che uno dei due originali sia giuridicamente corretto e l'altro no e applicando la regola prudenziale del “videat iudex”. Cosicché tale prassi reca in sé l'intrinseca incertezza su quale sia il vero originale e lascia inalterato il problema, di cui si è fatto preliminare cenno, della asseverazione dell'originale analogico all'originale digitale.

Lo scopo di questo contributo è quello di cercare di portare chiarezza sulla materia e di contribuire ad evitare l'affermarsi di prassi discutibili o anche solo inutili.


2) Si comincerà indicando le fonti di cui tener conto che, ad avviso di chi scrive, sono le seguenti.

Vale, innanzi tutto, l'art. 136 c.p.a. che, al comma 2 – bis attesta: “Salvi i casi di cui al comma 2, tutti gli atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale degli uffici giudiziari e delle parti sono sottoscritti con firma digitale”.

Il successivo comma 2 – ter aggiunge, però: “Quando il difensore depositi con modalità telematiche la copia informatica, anche per immagine, di un atto processuale di parte, di un provvedimento del giudice o di un documento formato su supporto analogico e detenuto in originale o in copia conforme, attesta la conformità della copia al predetto atto mediante l'asseverazione di cui all'articolo 22, comma 2, del codice di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82”.

Altre fonti di cui occorre tenere conto sono quelle sulla forma e sulla nullità degli atti processuali.

E poiché il codice del rito amministrativo non regola la materia, occorre, in virtù della norma di rinvio contenuta nell'art. 39, comma 1, c.p.a., fare riferimento alle disposizioni processualcivilistiche. Pertanto, all'art. 121 c.p.c. e agli artt. 156 e 157 c.p.c.

L'art. 121 c.p.c., a sua volta, stabilisce che “gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo”.

L'art. 156 prevede, invece: “Non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge.

Può tuttavia essere pronunciata quando l'atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo.

La nullità non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”.

L'art. 157 c.p.c., infine, stabilisce che “non può pronunciarsi la nullità senza istanza di parte, se la legge non dispone che sia pronunciata di ufficio.

Soltanto la parte nel cui interesse è stabilito un requisito può opporre la nullità dell'atto per la mancanza del requisito stesso, ma deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso”.

Ancora, pare rilevante, per l'esame della fattispecie, l'art. 44 c.p.a., secondo il quale “il ricorso è nullo: a) se manca la sottoscrizione; b) se, per l'inosservanza delle altre norme prescritte nell'articolo 40, vi è incertezza assoluta sulle persone o sull'oggetto della domanda”.

A tale, ultimo, articolo va riconosciuto un particolare rilievo, non fosse altro perché esso contiene anche quella che, probabilmente, è l'unica disposizione generale, data dal codice processuale amministrativo, sulle nullità processuali.

Al comma 4 – bis, infatti, l'art. 44 aggiunge che la nullità “degli atti “– quindi, sembrerebbe, di tutti gli atti processuali e non del solo ricorso – è sempre rilevabile d'ufficio dal giudice, “fermo quanto previsto dall'art. 39, comma 2”, c.p.a.

Secondo il nostro giudizio, invece, nessun valore può essere assegnato, all'art. 9 del d.P.C.M. 16, febbraio 2016, n. 40. Tale decreto, come è noto, regola le modalità di attuazione del processo telematico, secondo quanto previsto dall'art. 13, dell'all. 2 al d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104.

Ebbene, è pur vero che l'art. 9, cit., prevede che “il ricorso introduttivo, le memorie, il ricorso incidentale, i motivi aggiunti e qualsiasi altro atto del processo, anche proveniente dagli ausiliari del giudice, sono redatti in formato di documento informatico sottoscritto con firma digitale conforme ai requisiti di cui all'articolo 24 del CAD”.

Tuttavia, il d.P.C.M. non ha forza e valore di legge; verosimilmente, lo stesso non ha neppure carattere di atto normativo, perché il decreto non risponde ai requisiti formali previsti per i regolamenti dall'art. 17 della legge sulla Presidenza del Consiglio. In ogni caso, non sembra possibile sostenere che, con un atto privo di forza e di valore primari, si possa regolare la forma degli atti processuali e i casi di nullità, giacché , secondo i citati artt. 121 e 156 c.p.c., tale compito spetta solo alla legge.



3) Ciò premesso e cercando di procedere in modo lineare, il primo punto che merita di essere considerato è il fatto che l'art. 136, cit., al comma 2- ter, prevede espressamente che l'originale dell'atto processuale possa non essere digitale.

Diversamente non avrebbe senso ipotizzare il deposito di una sua copia per immagine, sia pure con l'asseverazione prevista dall'art. 22 del codice dell'amministazione digitale.

Un tanto deve, perciò, fugare ogni dubbio ed esclude in radice la necessità che l'atto vada redatto, originariamente, in forma digitale.

Continua, pertanto, a valere il principio della libertà della forma (art. 121 c.p.c.), con la conseguenza che le disposizioni sulla digitalizzazione degli atti processuali attengono essenzialmente al loro deposito e non alla loro formazione. Del resto, lo stesso art. 136 c.p.a. si intitola: “Disposizioni sulle comunicazioni e sui depositi informatici” .

A parere di chi scrive, inoltre, neppure può sostenersi che l'omessa asseverazione, ex art. 22, cit., della conformità del ricorso digitale rispetto all'originale cartaceo valga, in sé, nullità dell'atto o del deposito. L'eventualità si pone, se mai, solo nel caso in cui la difformità tra i due documenti non venga contestata da una delle parti e purché della medesima difformità venga raggiunta la prova.



4) Si potrebbe obiettare, tuttavia, che lo stesso art. 136 c.p.a., ma questa volta al comma 2 – bis, imponga che l'atto sia formato, sin dall'inizio, in modo digitale, ragionando sul fatto che tale disposizione prevede che il medesimo atto deve essere digitalmente sottoscritto. E poiché non si può sottoscrivere digitalmente nessun documento analogico, si potrebbe così avanzare la tesi secondo la quale l'atto deve essere, sin dall'inizio, composto in forma digitale, non fosse altro che per sottoscriverlo.

L'obiezione, se avanzata, non sarebbe, tuttavia, convincente, perché alla stessa si potrebbe contestare che ciò che va digitalmente sottoscritto non è, in realtà, l'originale del ricorso , ma solo la copia digitale dell'originale analogico, quale è utilizzata ai fini del deposito. Diversamente, infatti, non si saprebbe cogliere né il senso né l'utilità del successivo, e già citato, comma 2- ter dell'art. 136.

In ogni caso, vale contestare, contro la tesi ora in esame, che il comma 2 - bis – anche ipoteticamente ammettendo che dallo stesso possa trarsi la regola della forma originariamente digitale – non commina la sanzione della nullità per il caso della sua violazione

Perciò, per sostenere la tesi della nullità dell'atto – e del ricorso in particolare – occorrerebbe derogare al principio stabilito dall'art. 156, primo comma c.p.c., che, come è noto, introduce invece la regola della tassatività.

Occorrerebbe, altresì, derogare allo stesso art. 44 c.p.a., nella parte in cui esso indica, altrettanto tassativamente, le cause di inammissibilità del ricorso, che sono ridotte all'ipotesi in cui, come si è ricordato, manchi la sottoscrizione o vi sia incertezza assoluta sulle persone o sull'oggetto della domanda. Sul punto valga, incidentalmente, osservare che la mancanza della firma digitale non implica radicale mancanza di sottoscrizione, nel caso in cui essa sia stata apposta analogicamente. Perché, pur sempre, un documento analogico, che sia stato sottoscritto secondo le modalità tradizionali, certo non può dirsi “non sottoscritto”.

Per sostenere la nullità dell'atto processuale redatto in originale non digitale, toccherebbe, dunque, ipotizzare che lo stesso sia invalido, a' sensi del secondo e del terzo comma dell'art. 156, in ragione della sua ipotetica inidoneità a raggiungere il proprio scopo.

Anche questa prospettiva, però, non potrebbe essere convincentemente apprezzata.

Se così fosse, infatti, si aprirebbe, a questo punto, un duplice ordine di problemi, entrambi di non lineare soluzione.

Il primo problema sarebbe, appunto, quello di considerare se l'atto analogico, trasformato in copia immagine e depositato in tal veste, sia davvero inidoneo a raggiungere il proprio scopo.

Il secondo problema riguarderebbe l'individuazione del soggetto competente a rilevare la nullità. Si tratterebbe, in altri termini, di stabilire se essa sia rilevabile d'ufficio o se, viceversa, richieda l'eccezione di parte, da compiersi nel primo atto defensionale successivo alla produzione dell'atto ipoteticamente invalido.

 

5) Quanto al primo problema, non si coglie quale possa essere l'inidoneità allo scopo di un atto redatto originariamente in forma analogica e poi depositato in copia digitale.

Scopo della forma dell'atto processuale è quello di essere letto e valutato dalle parti e dal Giudice. Il processo telematico non aggiunge nuove finalità alla forma degli atti processuali, salvo quelle che impongono che i medesimi atti vengano prodotti in modo tale da poter essere conservati nei fascicoli informatici, vale a dire nei report che vengono tratti dal generale database conservato dal Sistema Informatico della Giustizia Amministrativa.

Ciò detto, sia l'atto che nasce originariamente in formato digitale, sia l'atto che lo diventa perché viene prodotta una copia digitale dell'originale analogico, sono entrambi in grado di soddisfare tutte queste finalità e non si riesce a cogliere che cosa esso abbia “di meno” il secondo atto rispetto al primo.

In entrambi i casi, invero, l'atto viene ugualmente presentato all'Ufficio Giudiziario in forma idonea ad essere trattata con le modalità del processo digitale.



6) Né può porsi un problema di conformità della copia digitale rispetto all'originale analogico, perché il potere di asseverazione, con le connesse responsabilità, è esplicitamente riconosciuto al difensore, per effetto del ripetuto richiamo, operato dalle fonti, all'art. 22 c.a.d.

D'altra parte, un tal problema di conformità, se esistesse, si riproporrebbe per l'ipotesi contraria, in cui sia necessario estrarre una copia analogica dall'atto processuale che sia nato in forma digitale.

Il che è quanto avviene nell'ipotesi in cui, ad esempio, il ricorso introduttivo venga notificato, come è consueto, con le tradizionali formalità della notificazione a mezzo di Ufficiale Giudiziario o in proprio e a mezzo posta dal difensore che ne sia autorizzato.

Non vi è dubbio, infatti, che le tradizionali forme di notificazione non siano state abrogate dall'introduzione del processo amministrativo telematico. Né, probabilmente, esse potrebbero venire mai abrogate, atteso che la notificazione in forma telematica è consentita solo verso i titolari di un account di posta elettronica certificata. Ma non tutte le potenziali parti del processo amministrativo sono tenute a dotarsi di un tale strumento: si pensi, ad esempio, a molti dei controinteressati, se persone fisiche, oppure alle persone giuridiche stabilite all'Estero.

In tale ipotesi di trasformazione dell'atto digitale in un atto analogico, ad uso della notificazione, verrebbe ugualmente in rilievo il problema della conformità tra i due documenti.

Ne segue che, neppure invocando la necessità di superare i problemi delle attestazioni di conformità, potrebbe essere sostenuta la tesi secondo la quale l'atto processuale andrebbe redatto sin dall'origine con forma digitale e a pena di nullità.

Infatti, la necessità di attestare le conformità tra il formato analogico e quello digitale ugualmente non verrebbe eliminata, ma si riproporrebbe in senso contrario. Pertanto, ammettere che l'atto possa essere confezionato in forma analogica non crea, sotto tale profilo, più problemi di quanti non ne crei l'atto formato, originariamente, con le modalità digitali.

Anzi, i problemi delle asseverazioni e delle attestazioni di conformità sono, se mai, acuiti, proprio nel caso in cui si debba trasformare un atto digitale in atto analogico.

Se, infatti, lo stesso art. 136 c.p.a. prevede esplicitamente che il difensore possa attestare la conformità all'originale analogico della copia digitale, non prevede, invece, l'ipotesi contraria, giacché tale disposizione limita i poteri di asseverazione alle ipotesi previste dall'art. 22 c.a.d.

L'art. 22 cit., tuttavia, prevede solo l'asseverazione della copia per immagine dell'originale costruito in forma analogica. Non consente il contrario.

Di contro, è piuttosto l'art. 23 del C.A.D. a consentire l'asseverazione, in copia analogica, di un originale redatto in forma digitale. A tale disposizione, del resto, si richiama la disciplina del processo civile telematico (art. 16 – undecies, d.l. 18 ottobre 2012, n.19), che riconosce, appunto, questo specifico potere ai difensori.

Sia l'art. 23, sia l'art. 16 – undecies, non possono, tuttavia, essere estesi al processo amministrativo telematico.

L'art. 23, infatti, non è applicabile, sia perché esso non è stato richiamato dall'art. 136 c.p.a., sia perché i poteri certificatori che esso prevede, specie se attribuiti ad un privato esercente pubbliche funzioni (quale sarebbe, nel caso, il difensore), non possono che essere di tassativo riconoscimento.

Quanto alla disciplina del processo civile telematico, invece, essa non può trovare applicazione nel processo amministrativo, stante il fatto che la norma di rinvio, contenuta nell'art. 39, c.p.a. allo scopo di colmare le eventuali lacune di regime, si riferisce alle sole norme contenute nel codice di procedura civile e non già alle discipline che, come quella sul p.c.t., trovano sede in altre fonti normative.



7) Quanto al secondo problema, infine, non è neppure certo che la ipotetica nullità dell'atto non originariamente redatto in forma digitale – ammesso che si voglia continuare a sostenerla, nonostante gli argomenti contrari ora addotti – sia rilevabile d'ufficio.

È vero che, secondo quanto si è detto, un regime di generale rilevabilità d'ufficio delle nullità processuali potrebbe essere sostenuto, nel rito amministrativo, in virtù di quanto previsto dall'ultimo comma dell'art. 44 c.p.a.

Il fatto, però, che la stessa disposizione contenga un esplicito richiamo al regime delle notificazioni (“fermo quanto previsto dall'art. 39, comma 2”), può forse suggerire la, meno restrittiva, tesi, secondo la quale la rilevabilità d'ufficio delle nullità processuali dovrebbe essere circoscritta alla nullità delle sole notificazioni e non a quella di ogni atto processuale di parte. Cosicché si potrebbe sostenere che solo la nullità degli atti di notificazione sia rilevabile d'ufficio, restando il principio dell'eccezione di parte (157 c.p.c.) per le restanti nullità.



8) In definitiva, chi scrive reputa che non possa essere considerato nullo o inammissibile il ricorso redatto originariamente in forma cartacea e depositato in copia digitale. Reputa altresì che non possa essere considerato nullo l'atto processuale, neppure nel caso in cui esso sia stato depositato senza recare l'asseverazione di cui all'art. 22 c.a.d., e salvo che non sia raggiunta la prova della difformità tra la copia (digitale) depositata e l'originale analogico.

Ciò si sostiene, in sintesi, sia perché l'art. 136, comma 2 – ter prevede espressamente la possibilità che l'atto sia originariamente analogico, sia perché non esiste alcuna disposizione di legge che preveda la nullità se l'atto sia stato redatto in forma analogica, sia perché l'atto analogico, da cui venga estratta copia digitale, è in grado di raggiungere ugualmente il suo scopo.









 





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